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Cartier

19 Giu

Con la fondazione del marchio Cartier, la gioielleria ha scritto uno dei più gloriosi capitoli nella storia delle arti decorative. In un secolo e mezzo di produzione i gioiellieri non hanno mai sacrificato la qualità ed hanno dato vita a dei capolavori: collane, bracciali, perle e gioielleria di ogni tipo.

Louis-François Cartier nacque nel 1819 a Parigi, il padre era un produttore di corni per polvere da sparo. All’età di ventott’anni, L.F. Cartier subentrò a Picard nella direzione del laboratorio di Rue Montorgueil che rimase la sede fino al 1853, anno in cui trasferì  gli affari al numero 9 di Rue Neuve-des-Petits-Champs (che si trovava tra la Borsa e il Palais-Royal) e si specializzò nella vendita a soli clienti privati. Cartier non poteva certo immaginare la fama di cui avrebbe goduto più tardi e che il suo destino sarebbe stato quello di catturare lo splendore nascosto delle gemme concepite per luccicare sulla fronte dei re e sulle mani delle regine. Il fatto è che Cartier fu benedetto da un dono straordinario: l’opportunità di iniziare la sua collaborazione con il famoso stilista Charles Frédéric Worth, un eccentrico  che vestiva sempre alla maniera di Rembrandt (come anche Richard Wagner usava fare). Ciò avvenne nel 1859 quando aprì il suo nuovo showroom a Boulevard des Italiens. Lì, nel cuore pulsante di Parigi, Worth stava per lanciare la moda della crinolina e quello che risultò dall’incontro fu l’invenzione della haute couture. La comunione tra tessuto e pietre preziose segnò in quel momento l’inizio del connubio tra moda e arte del gioiello. Cartier fece dei suoi gioielli l’ultima componente dell’abito alla moda. Da quel momento in poi, la crême della società europea avrebbe bussato alla sua porta. L’unione di questi due universi, fu consolidata due generazioni dopo con il matrimonio di Andrée Worth, nipote del grande stilista, e il nipote di Cartier Louis Joseph.

Gioielliere dei re, re dei gioiellieri

Nel frattempo, nell’angusta sede di Rue Neuve-des-Petits-Champs, il marchio Cartier stava per realizzare il suo primo colpo da maestro.

L.F. Cartier aveva trentasei anni quando la Contessa di Nieuwerkerke entrò per la prima volta nel suo negozio nel 1855. Nel giro di tre anni, avrebbe acquistato presso il suo negozio qualcosa come cinquantacinque oggetti. Suo marito era il sovraintendente alle belle arti di proprietà di Napoleone III ed era, inoltre, amico della Principessa Mathilde, anch’essa nipote di Napoleone I. Fu così che anche la principessa scelse di commissionare alcuni gioielli a Cartier: cammei con teste di medusa, orecchini ecc. Infine anche l’imperatrice Eugénie, la moglie di Napoleone III, ordinò a Cartier un servizio da tè in argento.

Le prospettive di Cartier vennero stravolte: grazie all’enorme richiesta, traferì la sede a  Boulevard des Italiens, che si trovava a due passi da Palazzo Garnier, il cui stile napoleonico starebbe stato, più tardi, guardato come rappresentativo di quel periodo.

Bracciale "Les Èlephants" proveniente dalla collezione "Route des Indes". In oro giallo e pietre preziose tra cui rubini, zaffiri e smeraldi, fu disegnato nel 1989.

Bracciale “Les Èlephants” proveniente dalla collezione “Route des Indes”. In oro giallo e pietre preziose tra cui rubini, zaffiri e smeraldi, fu disegnato nel 1989.

Ovunque le corti inviavano ambasciatori per investigare sul lodato gioielliere che veniva celebrato da tutti e, a tempo debito, divenne il gioielliere per le occasioni speciali di un certo numero di famiglie reali. Ben cinquanta commissioni vennero finanziate, tra il 1904 e il 1939, che consacrarono Cartier fornitore ufficiale delle teste coronate d’Europa. Oltre a ciò, c’erano anche ordinazioni disposte dal Re Edward VII d’Inghilterra (in occasione del suo matrimonio Cartier dovette fornire ventisette tiare), da Alfonso XIII di Spagna nel 1904 e, l’anno seguente, da parte di Carlos I di Portogallo. Successivamente vennero eseguiti lavori per lo Zar Nicholas II nel 1907, per il re Paramindr Maha Chulalongkorn del Siam nel 1908 (che scelse dei braccialetti in quantità tale da riempire un vassoio!), per il re Giorgio I di Grecia nel 1909 ed infine anche per il re Zog di Albania nel 1939. Numerosi furono pure quelli per Edward VII, al tempo ancora principe del Galles, che descrisse Louis Cartier come “il gioielliere dei re oltre che re dei gioiellieri”.

L’audace originalità del genio

Il fondatore della casa Cartier era dotato non solo di un appassionato amore per le pietre preziose ma anche di un gran senso degli affari. Solo Cartier seppe combinare (scelta azzardata all’epoca) modelli etruschi, greci e romani con dei design moderni. Trasse ispirazione anche dalle sculture, in particolare “La danza” di Jean-Baptiste Carpeaux, ma anche dal mondo animale e marino (cavalli, farfalle, granchi). La forza creativa di Cartier stava proprio nell’abilità di combinare infinite varietà stilistiche con la purezza nelle linee, senza mai violare i dettami delle convenzioni dell’epoca. Questo rappresentava l’audacia del genio, quando invece gli altri grandissimi nomi della gioielleria – Eugène Fontenay, Charles Christofle e Fortunato Pio Castellani- subivano tutti l’influenza dell’esposizione della Campana Collection del 1861, al Louvre che  consisteva in antiche opere d’arte poco prima acquistate da Napoleone III.

Pendente con dea dal vestito drappeggiato in stile rinascimentale contornata da una struttura in oro , argento e pietre preziose. Appesa a questa cornice, una perla a goccia. Cartier, 1900.

Pendente con dea dal vestito drappeggiato in stile rinascimentale contornata da una struttura in oro , argento e pietre preziose. Appesa a questa cornice, una perla a goccia. Cartier, 1900.

Rue de la Paix

Nel 1874 Alfred Cartier (1841-1925) assunse la gestione del negozio del padre in Boulevard des Italiens e nel 1898 fu affiancato dal figlio Louis Joseph (1875-1942), che fu l’ultimo ad ereditare il sesto senso per gli affari del nonno Louis-Francois e colui che trasferì la firma in una nuova era.

Prima di tutto spostò la sede in Rue de La Paix, simbolo del lusso a Parigi, e qui, nella strada più elegante del mondo, socializzò con il profumiere Guerlain e con gli stilisti Frédéric Worth e Jacques Douce. Fu il momento in cui emerse una diffusa esigenza di novità. I gioiellieri come Charles Lalique promossero lo stile dell’Art Nouveau in cui le influenze orientali venivano combinate con le innovazioni tecniche europee; tuttavia Louis Cartier non condivise il generale entusiasmo per lo stile che si stava diffondendo per l’europa e fiorendo a Vienna, Bruxelles e Parigi sotto una varietà di nomi diversi: Secessione, Jugendstil e style nouille. La sua riluttanza nell’abbracciare completamente l’Art Nouveau come fecero, al contrario, i suoi colleghi, determinò la direzione che avrebbe preso l’intero design di Cartier. Louis Cartier era più inclinato alla tradizione: passava le notti a leggere con entusiasmo le raccolte d’arte francese del diciottesimo secolo, a studiare dipinti, bronzi e merletti. Allargò il campo dei suoi interessi anche ai motivi arricciati e aggrovigliati dell’arte islamica. Il suo scopo era quello di cogliere la semplicità e la purezza della linea che avrebbe esaltato il motivo floreale che nell’Art Nouveau era troppo stilizzato e deforme per i suoi gusti. La sua ossessione però erano i diamanti: era alla continua ricerca di metodi per esaltare le pietre a discapito delle montature, per fare apparire le prime al massimo della loro lucentezza. Proprio andando a scavare nella tradizione francese, nacque il famoso “stile a ghirlanda” che Cartier realizzava prevalentemente su platino creando curve fluenti che parevano disegnate con il compasso e in cui anche i vuoti giocavano una ruolo importante nella composizione. La continua ricerca verso la brillantezza pura, lo portò a realizzare creazioni che non oscurassero in nessun modo la pietra, giunse a concepire, perciò, i motivi a fiocco, a merletto e a nappa che rappresentano gli elementi distintivi di uno stile che ricercava un’alternativa all’imperante moda dell’Art Nouveau. Louis Cartier riuscì a portare nella sua era un rinnovato classicismo che avrebbe presto attirato un esercito di ammiratori dai gusti esigenti.

Elizabeth Taylor indossa un collier Cartier realizzato nel 1969. A fianco la "Adéle necklace" composta da 291 diamanti.

Elizabeth Taylor indossa un collier Cartier realizzato nel 1969. A fianco la “Adéle necklace” composta da 291 diamanti.

Parigi, Londra, New york

Dato il successo raggiunto, la firma decise di varcare i confini per incontrare nuovi clienti. I due fratelli di Louis, Jacques e Pierre, aprirono rispettivamente le loro filiali a Londra e a New York. Balenò in loro l’idea di aprire un outlet a San Pietroburgo, seguendo la scia del grande Fabergé molto amato in Russia e in onore del quale la casa Cartier realizzò alcune uova alla sua maniera e piccole sculture tempestate di pietre,  ma infine decise semplicemente di inviare un rappresentante fisso in Russia, scelta azzeccata, visti gli sconvolgimenti politici imminenti. Un’altra scelta azzeccata fu quella di adattare i gioielli alla nuova moda del 1900 che stava attraversando una rivoluzione: gli abiti dalle linee dritte e semplici da tutti i giorni, potevano essere impreziositi da lunghi pendenti e luminose perle. Le perle, in effetti, negli anni che precedettero la prima guerra mondiale, surclassarono le tiare, allora diffusissime, ma troppo appariscenti e lussuose, perché sembravano più modeste ed appropriate. Il mercato delle perle subì un arresto con la crisi del ’29, ma nel frattempo cominciarono ad arrivare le perle giapponesi che, nonostante l’inferiore qualità, ebbero larga diffusione assieme a quelle nere di Tahiti. Due fili di perle di Cartier, valutati un milione di dollari, permisero alla società di acquistare la casa del banchiere Morton F.Plant lungo la Fifth Avenue, nel cuore di New York e di trasferirvisi.

Collana "Tutti Frutti" in platino con smeraldi, zaffiri, e rubini incisi a forma di foglie e frutti. I tredici zaffiri pendenti sono a taglio "briolette". Cartier, Parigi, 1936

Collana “Tutti Frutti” in platino con smeraldi, zaffiri, e rubini incisi a forma di foglie e frutti. I tredici zaffiri pendenti sono a taglio “briolette”. Cartier, Parigi, 1936

I balletti russi

Negli anni la maison Cartier aveva affinato il suo stile. Nonostante la riluttanza nei confronti dell’Art Nouveau, i tre fratelli erano molto sensibili agli stimoli esterni. Nel 1909 aderì al marchio Cartier il talentuoso progettista Charles Jacqueau, appassionato di orientalismi e sempre alla ricerca di ispirazione. Folgorato dalla compagnia di ballo Diaghilev/Nijinski, estasiato in particolare dalle giustapposizioni di colori vivi e contrastanti e dalle combinazioni delle scenografie,riversò nei gioielli che furono arricchiti da pietre colate, come ametiste, zaffiri e smeraldi, ma anche da pendenti cinesi e giapponesi, trasformando la produzione Cartier. Da queste audaci combinazioni nacque, per esempio il Peacock-design, molto apprezzato dalla Viscontessa Astor che fu anche la prima ad indossarlo.

Louis Cartier continuò a sperimentare traendo ispirazione dalle cose più varie ed umili, come ad esempio le retine per capelli, per costruire montature più flessibili. Le sue creazioni, se da un lato potevano sconcertare il pubblico, dall’altro potevano anche suscitare in lui un grande fascino.

Orologio da polso squadrato in oro e platino il cui quadrante è tempestato di brillanti. Il bracciale è composto da perle e onice. Cartier, Parigi, 1912.

Orologio da polso squadrato in oro e platino il cui quadrante è tempestato di brillanti. Il bracciale è composto da perle e onice. Cartier, Parigi, 1912.

Cartier time

Operando nel settore del lusso e della gioielleria, era inevitabile che la firma avrebbe sviluppato un interesse per l’orologeria. Nel lontano 1904 Louis Cartier aveva prodotto un orologio come tributo per il coraggio dell’aviatore brasiliano Santos Dumont. Con le sue linee pulite che evocano la velocità, quel modello fu messo in commercio nel 1911. Qualche anno più tardi arrivò il modello “Tank”, la sua forma squadrata si ispirava direttamente alle macchine militari che, sfortunatamente, sembravano avere un promettente futuro. Nei laboratori Cartier l’ingegnoso Maurice Coüet fece un gran balzo in avanti con la linea dei “Mistery clocks”, basati su un sistema sviluppato  da Jean Eugene Robert Houdin durante la metà del diciannovesimo secolo. Le lancette di questi orologi parevano fluttuare all’interno della superficie trasparente. Il meccanismo che le regolava semplicemente spariva alla vista e le lancette sembravano muoversi da sole, come per magia. In realtà, ogni lancetta era fissata in un disco di vetro dentellato mosso da una vite, così il meccanismo rimaneva nascosto nella base. L’illusione creata – insieme al senso palpabile del passare del tempo- faceva di questi orologi degli oggetti affascianti. I “Comet Clocks”  gli orologi a colonna e a pendolo, i “Turtle clocks, i “Chimaera Cloks” ecc.  sfruttavano la forza di gravità trasformata in un intricato sistema di ingranaggi. Alcuni di questi orologi sarebbero stati visti non solo come dei capolavori dei loro inventori ma anche come vanto per l’intera orologeria.

Turtle-Chimaera mystery table clock. Cartier, Parigi, 1943.

Turtle-Chimaera mystery table clock. Cartier, Parigi, 1943.

Panthera pardus

Durante la depressione successiva al crollo del ‘29, Louis Cartier trovò un’ottima alleata in Jeanne Toussaint. Amica di Coco Chanel, questa donna straordinaria, più tardi soprannominata “la pantera”, ebbe il totale controllo delle creazioni Cartier per un periodo di circa vent’anni. Nonostante non sia mai stata una designer, era talentuosa e fu molto apprezzata.  Nel 1933 jeanne Toussaint si occupò di alta gioielleria. Negli ultimi anni dell’Art Deco fece della pantera un oggetto di culto, una sorta di marchio. Era sempre alla ricerca di nuove idee e, sotto la sua direzione, il reparto tecnico sviluppò una serie di invenzioni destinate a combinare la solidità della costruzione con la comodità dell’uso: fibbie, clips modellate sulle mollette da bucato, spille composte di più parti per poterle adattare/comporre. Cartier stava emergendo nel mondo della moderna produzione di accessori. Fu creato un nuovo “Department  S”, indirizzato alla produzione di lussuosi  oggetti da regalo e accessori pratici come orologi da taschino, cinture e accendini. Molte nuove linee vennero prodotte, anticipando la gamma “les must de cartier” introdotta nel 1973. Era un nuovo mondo, un nuovo settore, un tentativo di provvedere al  contemporaneo settore delle merci di lusso.

"Jooghi brooch" incrostata da 453 brillanti e 68 zaffiri. Cartier, Parigi,1988.

“Jooghi brooch” incrostata da 453 brillanti e 68 zaffiri. Cartier, Parigi,1988.

Quando sia Louis che Jacques persero i loro business nel 1942 con lo scoppio della seconda guerra mondiale, la gestione della firma in Rue de la Paix, passò a Jeanne Toussanit e Pierre Lemarchand. Insieme, i due, cercarono l’ispirazione allo zoo di Vincennes, ma siccome il bestiario di Cartier era già riccamente fornito di pantere, zebre e gusci di tartaruga usati sia come base per il design, sia come sfondo su cui sviluppare altre creazioni, la collezione fu incrementata ulteriormente con oggetti presi in prestito dal mondo della flora e della fauna dell’Asia. Draghi e chimere erano utilizzate per abbellire orologi da tavolo, spille e pendenti, ma anche elementi simbolici provenienti dall’estremo oriente e dalla Germania furono introdotti per la prima volta nel repertorio di Cartier. Nel 1954, infine,  Jeanne Toussant rintrodusse il chimera style che era stato enormemente popolare nel 1920, ma la novità ora era rappresentata dal fatto che addomesticava i mostri e li trasformava in adorabili animali domestici. Furono immediatamente adottati dalla Baronessa D’Erlanger e dall’Onorevole Mrs Fellowes,  entrambe appassionate di gioielleria artistica.

Spada accademica di Jean Cocteau. Guardia modellata sul profilo di Orfeo, impugnatura culminante con una lira nella quale è incastonato uno smeraldo donato da Coco Chanel. Sul dico in avorio alla base dell'elsa appare una stella a sei punte con rubini a cabochon con al centro un diamante fornito da Francine Weisweiller. Archivio Cartier.

Spada accademica di Jean Cocteau. Guardia modellata sul profilo di Orfeo, impugnatura culminante con una lira nella quale è incastonato uno smeraldo donato da Coco Chanel. Sul dico in avorio alla base dell’elsa appare una stella a sei punte con rubini a cabochon con al centro un diamante fornito da Francine Weisweiller. Archivio Cartier.

Clienti leggendari

Aprono la lista il duca e la duchessa di Windsor. Nel 1948 il duca commissionò una spilla con pantera per la moglie. Il gioiello consisteva in una pantera in oro, un leopardo in realtà, il cui mantello è picchiettato di minuscole pietre preziose, sdraiata su uno smeraldo cabochon del valore di 116.74 carati. Questa pantera tridimensionale fu la prima della serie. Negli anni successivi, di nuovo i Windsor richiesero uno zaffiro cabochon decorato con un leopardo seduto incrostato di diamanti e zaffiri. L’Onorevole  Fellowes, che competeva con la duchessa di Windsor per il titolo di donna meglio abbigliata del mondo, ne commissionò per sé una di simile. Nel 1957, la principessa Nina Aga Khan fu la destinataria del più prestigioso gioiello tra quelli della serie pantera: una spilla pendente da jabot e un bracciale con due teste di leopardo.

Tra gli esponenti di spicco francesi, i marescialli Foch e Petain si rivolsero a Cartier per i loro bastoni e spade da cerimonia. Il primo membro dell’Académie Française a richiedere i servizi di Cartier come creatore di spade, fu il duca di Gramont nel 1931. La sua fu la prima di una lunga serie di spade accademiche prodotte da cartier, tra le quali si annovera anche quella per Jean Cocteau:  nel 1955, il poeta commissionò una spada da lui disegnata ispirata al tema di Orfeo. Il suo stile ebbe una sostanziale influenza sulla produzione successiva di cartier. Fu proprio Cocteau a definire Cartier “uno scaltro mago in grado di catturare un pezzo di chiaro di luna insidiato da un raggio di sole”. Cartier gli donò un anello fatto di tre fasce d’oro, ognuna in un diverso e simbolico colore -grigio per l’amicizia, giallo per la costanza e rosa per l’amore- un pezzo originale di rara semplicità e perfezione.

Collana di diamanti con smeraldo rettangolare. Cartier, Londra, 1932.

Collana di diamanti con smeraldo rettangolare. Cartier, Londra, 1932.

Cartier e le arti

Nel 1983 Cartier decise di istituire una personale retrospettiva. Può sembrare paradossale che la firma che aveva sede a Rue de la Paix, non possedesse esempi delle  proprie creazione. Per organizzare l’esposizione, il curatore della collezione Cartier Eric Nussbaum mise insieme 1500 pezzi, con estrema difficoltà, dovendo ricorrere ad aste e vendite private dato che in ogni famiglia i gioielli sono  l’ultima cosa che viene venduta. I pezzi del diciannovesimo secolo, in particolare erano pochi, poiché si usava scomporre e rimodellare pezzi antichi in favore di forme più moderne.

Grazie all’esistenza di una collezione d’archivio in espansione, delle favolose esposizioni sono state organizzate in tutto il mondo, sotto l’egida di Franco Cologni, il vice-presidente Cartier, a partire dalla celebrazione del centocinquantesimo anniversario della firma, nel 1997. In quell’occasione il MET di New York e il Brithish Museum di Londra allestirono congiuntamente un’importante esposizione sponsorizzata da Cartier. Negli ultimi anni i temi hanno incluso il potere dei segni, la grandezza dell’Egitto e i misteri dell’india.

Nel 1984, il presidente della compagnia Alain Dominic Perrin, decise di istituire la Fondazione Cartier per l’Arte Contemporanea. In collaborazione con l’architetto Jean Nouvelle mise mano al progetto di disegnare la struttura a Boulevard Raspail, dimostrando che l’arte del passato poteva convivere in modo appropriato con una moderna architettura dove, ancora una volta i meccanismi erano nascosti: la vera incarnazione dello spirito della casa Cartier.

(Il testo è frutto di una sintesi e di una traduzione libera del volume “Cartier” dello scrittore ed architetto Philippe Trétiack (reporter di Elle Magazine). Le immagini riportate sono tratte anch’esse da questo volume. Edizione Assouline, New York, USA, 2004.)

Autore: Silvia Marcassa

Il Flower Power tra moda e società

25 Mag

Il Flower Power tra moda e società.

Lo stile rétro nei gioielli da cocktail degli anni ’30

22 Mag

Il termine rétro fu utilizzato per la prima volta nel 1970 da François Curiel, il capo del dipartimento gioielli della casa d’aste Christie’s a New York, in riferimento a quei gioielli che le maisons francesi  avevano presentato a New York in occasione della fiera internazionale  del 1939. Rimasti in America a seguito dell’esposizione, quei monili  fornirono modelli utili per le ditte di produzione americane. Questi ornamenti erano caratterizzati da grandi dimensione e dal massiccio uso di forme tridimensionali con superfici lucide montate su oro, proposto in diversi colori: dal giallo, al bianco, al rosa. Si discostano, dunque, dai gioielli dall’aspetto autentico e più contenuto dei primi anni ’30 in cui la policromia era praticamente scomparsa in favore di un utilizzo del  bianco e del nero, spesso a contrasto, ottenuto associando diamanti e giaietto su montature in platino oppure in oro bianco (cosiddetta “Gioielleria Bianca”).

Questi gioielli risentivano ancora delle influenze degli anni ’20, in cui le enormi pietre nascondevano quasi del tutto le montature in metallo, ma le cui forme cominciavano pian piano ad ammorbidirsi, modificando il taglio geometrico con curve, anse, spirali. Accanto a questi, comparivano monili in stile Mogul, policromo, composto di pietre semipreziose provenienti dall’India, ma con design più puliti e geometrici, dettati dalla moda francese.

Spilla a forma di cestino di fiori in argento con strass azzurri e bianchi. Mazer, 1938 circa.

Spilla a forma di cestino di fiori in argento con strass azzurri e bianchi. Mazer, 1938 circa.

Intorno alla metà degli anni ’30, lo stile dei decenni precedenti venne praticamente  dimenticato: sparirono i gioielli piccoli e discreti e dall’aspetto autentico, per lasciare posto a vistosi monili, smaccatamente falsi, a volte ispirati a motivi naturalistici, a volte a motivi geometrici, ma con forme angolari che andavano progressivamente smussandosi e arrotondandosi.  Prodotti in serie, da questo momento  i bijoux si discostarono dalla pura imitazione per darsi una propria identità e un forte carattere che producesse un nuovo impatto sulla moda.

Si cominciò, dunque, a sperimentare il più possibile utilizzando metalli di scarsa qualità e strass che davano maggiore libertà al designer.

Spilla a duette per pelliccia con tartarughe in vermeil, strass e pietre in lucite. Firmata Trifari, primi anni '40.

Spilla a duette per pelliccia con tartarughe in vermeil,
strass e pietre in lucite. Firmata Trifari, primi anni ’40.

La vera novità di questo periodo, però, fu l’introduzione delle materie plastiche, le cui proprietà fisiche consentivano una facile lavorazione. Essendo molto malleabile, la plastica poteva essere modellata in ogni forma, colorata, incisa, forata ed unita ad altri materiali come legno e metallo; essendo poi molto economica, poteva essere tranquillamente gettata nel caso si commettesse un errore nella realizzazione.

Le plastiche più utilizzare furono le seguenti: la parkesine, la prima a fare la sua comparsa sul mercato, composta da una base di cellulosa unita all’acido nitrico, fu un’invenzione dell’inglese Parker (1855), la sua formula fu successivamente perfezionata ed arricchita da fibre vegetali, canfora ed acido solforico ad opera dei fratelli Hyatt che la brevettarono nel 1869 con il termine di celluloide;  la galalite, inventata dal tedesco Adolph Spitteler, era una combinazione di formaldeide e di un derivato del latte acido, non infiammabile e più resistente e brillante rispetto alle materie precedentemente scoperte; la lucite era una sorta di plexiglass trasparente, utilizzato per simulare il cristallo di rocca e brevettato del 1941 in America ed infine la bachelite, fu scoperta per caso (combinando formaldeide e acido carbolico) dal chimico Leo Baekeland nel 1907.

Spilla in bachelite con jazzista snodabile in uniforme. Francia, 1930 circa.

Spilla in bachelite con jazzista snodabile in uniforme. Francia, 1930 circa.

Quest’ultima, essendo molto robusta, disponibile in diversi colori e facile da incidere e modellare, divenne la materia più funzionale alla creazione di pezzi ispirati al mondo vegetale, animale ma anche ad elementi umoristici, come piccoli clown snodabili, buffe figure dai tratti etnici e caricature di jazzisti e soldati.

Il gioiello fantasia, però, trovò terreno fertile anche, e in particolare, nel mondo delle star hollywoodiane: gli accessori indossati dalle dive di Hollywood, soprattutto nei film storici, spesso e volentieri non erano autentici e venivano realizzati quasi tutti dalla società californiana “Joseff of Hollywood”. Sempre noleggiati e mai venduti, i gioielli si ispiravano a quelli antichi, ma venivano ingigantiti e resi più luminosi per poter risaltare bene sul grande schermo.

Bracciale e collana degli anni '30 di Joseff of Hollywood.

Bracciale e collana degli anni ’30 di Joseff of Hollywood.

L’emulazione delle star hollywoodiane ben presto divenne una moda che attirava tutte le classi sociali, tanto che le industrie di Providence dovettero affrettarsi ad incrementare la produzione per soddisfare la richiesta di bijoux d’imitazione, che stavano diventando i protagonisti assoluti della movimentata vita notturna. Si diffusero ,dunque, sotto il nome di cocktail jewels,  gioielli grossi, audaci e d’impatto cinematografico, esibiti nei café society durante i cocktail party. Si indossavano spille floreali smaltate prodotte da Trifari,  collane con fiori dai toni pastello ispirate a quelle prodotte dalla Maison Gripoix per Chanel, cammei  e medaglioni con cestini e ramoscelli fioriti di gusto vittoriano.

Retrò cocktail ring degli anni '40 con diamanti e rubini montati su oro rosa 14k.

Rétro cocktail ring degli anni ’40 con diamanti e rubini montati su oro rosa 14k.

L’attenzione si focalizzò principalmente sugli anelli per il fatto che le eleganti giovani donne ordinavano i loro drink alzando la mano destra e mettendo in mostrale dita ingioiellate: con ciò si spiega l’associazione con il termine cocktail.

Quando le grandi feste private si spostarono dai café society alle ville private, si diffuse la pratica di organizzare piccole sfilate di bijoux e vendite porta a porta: è il caso della ditta “Sarah Coventry”, che preferiva vendere i gioielli a domicilio piuttosto che al bancone di un grande magazzino. La “Sarah Coventry” era stata fondata nel 1949 da Charles Stewart che aveva deciso di chiamare l’azienda con il nome della nipote. La ditta non produceva direttamente i gioielli, bensì si affidava a collaboratori esterni e freelancers; soltanto dopo qualche anno incorporò a sé diverse firme quali Delizza e Elster. Nonostante le collezioni Coventry non possiedano uno stile proprio ed identificativo, si possono distinguere alcuni tratti comuni nella produzione: pietre en cabochon con taglio ellittico a volte montate a giorno, a volte montate su filigrane in metallo smaltato oro o argento, motivi floreali, piccoli frutti, arricchiti da smalti e da riproduzioni in miniatura di quadri famosi.

Cammeo, utilizzabile sia come spilla che come pendente, con piccola riproduzione della Gioconda e perle. Sarah Coventry.

Cammeo, utilizzabile sia come spilla che come pendente, con piccola riproduzione della Gioconda e perle. Sarah Coventry.

I cocktail jewels, generalmente molto vistosi, dovevano essere anche movimentati da linee fluide e ricurve, da asimmetrie, da nappe in strass e da montature en tremblant che animavano e vivacizzavano gli accessori, ma soprattutto dovevano essere versatili. Le ditte come Mazer, Boucher, Maclellan-Barclay e Mone, infatti, misero in commercio gioielli d’oro meno eccessivi, ma ugualmente alla moda, senza strass, collane smontabili con pannelli centrali simili a clip, appese a catene chiamate “a tubo del gas” o “a coda di topo”, bracciali rigidi tempestati di cabochon oppure formati da ampie fasce a maglia articolata, spille  duette e orecchini più contenuti e aderenti al lobo.

Spilla Pulcinella con meccanismo di movimento in metallo, smalto, strass e vetro. Marcel Boucher, 1940.

Spilla Pulcinella con meccanismo di movimento in metallo, smalto, strass e vetro. Marcel Boucher, 1940.

Questa scelta era dettata da un bisogno immediatamente pratico da parte delle donne lavoratrici che potevano così concedersi un aperitivo in uscita dal lavoro e di aggiungere un tocco di eleganza  e colore ai tailleur di taglio maschile, austeri e scuri, simili a divise, che si indossavano in quegli anni, ma anche dalla penuria di materie prime  impiegabili delle ditte produttrici. I regolamenti restrittivi sui metalli e il blocco delle esportazioni dalla Francia durante la seconda guerra mondiale, limitarono le risorse costringendo l’industria della moda a ridimensionarsi e a risparmiare sui materiali; molte piccole fabbriche, invece, furono obbligate a riconvertire la produzione per fornire strumenti e componenti necessari agli eserciti.

Spilla degli anni '40 a forma di jeep. Maubossin.

Spilla degli anni ’40 a forma di jeep. Maubossin.

In questa situazione, però, ci fu un risvolto positivo: le società, tra cui Coro e Trifari, diedero via a sperimentazioni molto ingegnose che portarono alla creazione di gioielli fantasia tra i più straordinari del secolo. Si diffuse l’argento 925, l’unico metallo non soggetto a restrizioni, relativamente  economico ed abbondante, duttile e perfetto per essere placcato in oro (vermeil). Gli strass erano diventati molto rari perciò l’attenzione si rivolse alle superfici di metallo, cesellate ed intarsiate con maestria, a volte arricchite da pietre di vetro colorato, prodotto in America, o da smalti. Si creavano delle forme vuote all’interno per risparmiare sui materiali senza dover rinunciare all’appariscenza e si cercava di dare visibilità anche alle montature. Si imposero forme bizzarre e una vastissima gamma di contenuti figurativi, dagli animali fantastici ai soggetti patriottici, per vivacizzare gli abiti monotoni e rigidi; i bracciali, addirittura, erano composti da elementi articolati come  ingranaggi e catene che traevano ispirazione dai motivi bellici.

L’enorme varietà di temi, componenti, stili e materiali costituisce il filo conduttore della produzione dei gioielli e dei bijoux di questi decenni.

Autore: Silvia Marcassa

Photo Credit: http://preziosamagazine.com/ti-conosco-mascherina-costume-jewellery-in-maschera/ ; http://www.dejavuteam.com/2013/04/09/gioielli-anni-40/ ; http://www.timedancesby.com/images/bakelite/bb278.htm ; https://it.pinterest.com/ – cocktail rings.

Trifari e il trionfo del bijoux

15 Mag

A partire dagli anni ’30, in seguito alla crisi economica del periodo post bellico, i gioiellieri, che subiscono un forte abbassamento di clientela, per sopravvivere iniziano a produrre, accanto alle tradizionali linee di gioielli veri, nuove serie di bijoux, falsi ma eccellenti per stile e fattura. Questo fenomeno fa si che negli Stati Uniti si raccolgano i più grandi disegnatori emigrati sin dal secolo precedente, quali Alphred Philippe e Gene Verri tra gli altri, e si inizi a produrre in larga scala. In breve, la mania del bijoux conquista le donne di ogni classe sociale, aumentano le industrie del settore ed emergono le più importanti case di bigiotteria firmata, al grido

Un diamante è per sempre, uno strass è per tutte!

La moda femminile negli anni '30

La moda femminile negli anni ’30

L’uso del bijou diventa il segno di una progressiva democratizzazione della società e del riscatto del ruolo della donna nella società contemporanea, il cui valore non è più dettato dalla famiglia a cui appartiene (e di cui eredita i preziosi) bensì dalle proprie capacità e doti, anche di eleganza e fantasia.

Trifari, braccialetto Art Decò, 1920

Trifari, braccialetto Art Decò, trifanium e strass, 1920

L’idea di base è che ogni donna ha diritto di sentirsi speciale e può farlo indossando qualcosa di bello; la “bellezza” di un gioiello può non dipendere più soltanto dalla preziosità del suo materiale, conta anche l'”idea”, l’estro creativo di un designer, unito all’esperienza degli artigiani in grado di creare prodotti curati e definiti in ogni dettaglio. I materiali, anche se dai costi contenuti diventano unici e sfavillanti perché arricchiti da strass e false perle. In questo contesto di grande innovazione del costume e della società che apre la strada alla seconda metà del XX secolo, la casa di bijoux a nome Trifari è certamente una delle protagoniste più acclamate. Il marchio porta oltreoceano tutta l’arte e l’estro creativo del “made in Italy”, tramandato dalla tradizione artigiana partenopea.

Pubblicità Trifari, in Vogue, dicembre 1944 e Harper's Bazaar, gennaio 1945

Pubblicità Trifari, in Vogue, 1944 e Harper’s Bazaar, 1945

Nata in America nel 1918 dall’orefice napoletano Gustavo Trifari e dal suo socio Leo F. Krussman (il primo dotato di esperienza artigiana ed estro creativo, il secondo di capacità imprenditoriale), il marchio si arricchisce nel 1925 di un terzo socio, Carl Fischer, e raggiunge il successo negli anni ’30, quando le riviste teatrali di Broodway usano per il loro palcoscenico solo ed esclusivamente gioielli Trifari per spettacoli di larga fama quali La grande guerra e Roberta.

Pubblicità Trifari della collezione Sahara, in Harper's Bazaar, 1963

Pubblicità Trifari della collezione Sahara, in Harper’s Bazaar, 1963

Il successo da quel momento è in continua ascesa: il marchio Trifari continua a produrre anche durante la Seconda Guerra Mondiale, resistendo alle restrizioni sulle importazioni dei metalli imposte dal governo americano. Durante la guerra i bijoux vengono prodotti utilizzando una lega in argento, con la quale i geniali designer realizzeranno degli affascinanti melanges di colori e materiali. Sempre negli anni del conflitto, la casa non solo continuerà a produrre a largo consumo ma addirittura si inventerà gioielli patriottici, spille e ferma pellicce a forma di aquila, bandiera e emblemi di intenti celebrativi, con i quali si aggiudicherà un contratto in esclusiva per progettare e realizzare il logo dell’England Royar Air Force.

Spilla Trifari Crows, 1950

Spilla Trifari, trifanium color oro e perline, 1950

Gli anni che vanno dal ’40 al ’60 sono considerati l’età d’oro della bigiotteria americana, dal 1953 al 1957 Trifari firma addirittura in esclusiva gioielli per la moglie del Presidente degli Stati Uniti Eisenhower, Ladie Mamie, che li indossa nelle cerimonie ufficiali, creando una vetrina tra le più illustri nella lunga e fortunata storia del marchio. La tradizione si è rinnovata negli anni ’90, quando tra le ammiratrici del marchio troviamo un’altra celebre first lady, Barbara Bush.

Collana Trifari in trifanium color oro giallo e perline smaltate color turchese, 1957

Collana Trifari in trifanium color oro giallo e perline smaltate color turchese, 1957

L’utilizzo di materiali poveri e di modesto prezzo per la realizzazione di tutti i gioielli, imposto dalla crisi economica conseguente la seconda guerra mondiale, diventa, grazie all’abilità della casa Trifari come di altre case produttrici di bijoux degli stessi anni (Eisenberg, Hobè, Robert, Boucher, Miriam Haskell, Coro, Weiss, Sara Coventry, Kramar, Art, Lisner, Vendome) una vera e propria tendenza, conquistando un’imponente fetta di mercato.

Spilla Trifari in trifanium color oro, 1960

Spilla Trifari in trifanium color oro, 1960

Ma quali sono le ragioni di un successo così grande? intanto per Trifari hanno lavorato tra i maggiori designer di gioielli, da Alfred Philippe, che all’inizio della sua collaborazione con la casa nel 1930 vantava già un curriculum d’eccezione (Cartier e Vaan Cleef & Arpels) fino all’artista, fotografa e designer Diane Love, che negli anni ’70 realizzò per Trifari splendidi esemplari.

moda anni 60

La moda femminile negli anni ’60

Inoltre, i bijoux di Trifari sono realizzati con una lega metallica, il trifanium, del tutto simile all’oro bianco e giallo per colore e lucentezza, che ha il pregio di mantenerli inalterati col passare degli anni.

A questo si aggiunge la cura nei minimi particolari che li rende affascinanti e preziosi esattamente come i “veri” gioielli e la capacità dei suoi designer di cavalcare ed anticipare le tendenze della moda femminile in tutti i suoi cambiamenti ed evoluzioni.

La designer Diane Love con una collana Trifari disegnata da lei, 1970

La designer Diane Love con una collana Trifari della collezione Ming, in Harper’s Bazaar, 1972

Come si fa a riconoscere un bijoux Trifari? Semplice, basta guardare il marchio stampato sul retro. Il primo marchio Trifari è ‘KTF’ ovvero le iniziali di Krussmann Trifari e Fishel senza corona, in uso dal 1925 al 1937, in seguito il marchio viene realizzato per esteso con varie grafie e varie corone. Si può senz’altro dire, tuttavia, che un bijoux Trifari, al di là del marchio, è riconoscibile per la straordinaria qualità della lavorazione e per l’inalterabilità della luce che emana, anche dopo tanti anni, caratteristica che rende il marchio attualmente ancora tra i più richiesti nell’ambito della bigiotteria vintage.

Autore: Lara De Lena

Photo credit: http://www.caladoriente.it/;

http://www.ebay.it/; https://sararacouture.com; https://www.pinterest.com; Johanne Dubbs Ball, Costume jewelers. The golden Age of Design, Shiffer pubblishing Ltd, USA, 1990

A.V. Shinde

11 Mag

Ambaji  Venkatesh Shinde, il più importante e famoso creatore di gioielli indiano, nacque il 22 dicembre del 1917 a Mapusa, un villaggio di pescatori nello staterello di Goa, in India.Figlio di un venditore che commerciava bijoux e utensili da cucina, si interessò fin da piccolissimo all’arte, al teatro e alla gioielleria. Già a sette anni manifestò le sue doti grafiche: il ritratto caricaturale di una compagna di classe, che inizialmente, gli costò uno schiaffo, fu, invece, molto apprezzato dal padre della ragazza, tanto che decise di incorniciarlo ed appenderlo in casa.

La sua abilità, non riconosciuta dai genitori, venne incoraggiata, al contrario, dal maestro Bhaskar che si propose di accompagnare Shinde a Bombay ed iscriverlo alla J.J. School of Art, la più prestigiosa scuola d’arte della città, in modo che ottenesse una formazione artistica adeguata. Il maestro riuscì a convincere i genitori del ragazzo che giunse in città e soggiornò, per i primi tempi, presso la casa di un amico del padre.

Tempera e acquarello di un collier di smeraldi e diamanti creato per Harry Winston nel 1984. (Archivio Harry Winston).

Tempera e acquarello di un collier di smeraldi e diamanti creato per Harry Winston nel 1984. (Archivio Harry Winston).

Nel 1937, Shinde conseguì il diploma, ma quello stesso anno il padre morì lasciando lui e i suoi fratelli minori senza eredità. Ritrovandosi, per tanto, alla guida della famiglia, dovette cercarsi un incarico. Il primo non fu nel campo del tessile, bensì in ambito orafo presso una delle principali gioiellerie di Bombay: Narauttam Bhau Jhaveri. Nonostante Shinde non si fosse mai cimentato nella progettazione di gioielli, i suoi schizzi piacquero molto al direttore che lo reputò perfettamente capace di adempire al compito. Nonostante l’iniziale esitazione, il giovane decise di non farsi sfuggire un occasione del genere, debuttò nel 1937 e nel 1938 ricevette l’importante incarico di creare alcuni gioielli per la cerimonia d’incoronazione del maharajah Sayaji Rao Gaekwad de Baroda, uno dei sovrani più importanti dell’India.  Nel frattempo aveva conosciuto un abile gioielliere di nome Ram Pohli con il quale aveva stretto amicizia e che si offrì di dargli consigli ed insegnargli alcune tecniche di disegno.

Durante il soggiorno presso  Narauttam Bhau, a Shinde non era permesso l’ingresso all’atelier, il suo lavoro si limitava alla creazione di modelli su carta, di conseguenza gli erano totalmente sconosciute le tecniche di realizzazione. Il suo incarico da freelance, però, lo avvicinò alle tecniche della gioielleria di lusso che apprese un po’ alla volta.

Collier di smeraldi e diamanti per Nanubhai Jewelers, 1952. (Collezione privata).

Collier di smeraldi e diamanti per Nanubhai Jewelers, 1952. (Collezione privata).

Nel 1941 fu  assunto da Nanubhai, che stava proprio in quell’anno inaugurando la sua maison. Da lui apprese a trarre ispirazione da tutto ciò che lo circondava, tutto si poteva trasformare in gioiello.

Il periodo della seconda guerra mondiale, l’instabilità politica ed economica spinse i maharajah a vendere in segreto i loro gioielli. Fu un dato positivo per il campo della gioielleria: si riuscivano, infatti, a trovare facilmente sul mercato, incredibili quantità di gemme e diamanti antichi, ricercatissime dai mercati occidentali (come ad esempio Van Cleef & Arpels e Harry Winston).

Nel marzo 1946, per il giubileo dei diamanti, ossia l’anniversario per il sessantesimo anno di regno, Sua Altezza Reale il principe Aga Khan III, commissionò a Shinde un sari bianco arricchito da più di 1200 diamanti destinato alla promessa sposa durante la cerimonia. Nel 1949, invece, un celebre industriale indiano, Ranmarain Ruia, richiese un paio di orecchini per l’idolo nel tempio di Tirupati in India del Sud: quaranta centimetri di pendente con 500 diamanti.

Il maharajah del Nepal il giorno della sua incoronazione. La maharani indossa un collier di smeraldi e diamanti. (Collezione privata).

Il maharajah del Nepal il giorno della sua incoronazione. La maharani indossa un collier di smeraldi e diamanti. (Collezione privata).

Il nome di Nanubhai si legò, presto, a quello dei più famosi maharajah, ormai aveva a carico tutte le commissioni di gioielleria ed argenteria ufficiali e private dei sovrani.

Negli anni lo stile di Shinde si evolse: si mise a sperimentare e a rinnovare le forme indiane tradizionali. Generalmente le antiche parure reali consistevano in enormi collier di pietre il cui peso era direttamente proporzionale all’importanza del proprietario. Shinde decise di modernizzare il gioiello combinando i tipici motivi a ghirlanda e le grosse pietre dai colori anni quaranta e cinquanta con i simboli etnici e religiosi richiesti dai clienti. Grazie all’abilità di Shinde, Nanubhai ottenne grandissimi riconoscimenti e titoli.

L’epoca d’oro dei maharaja, però, si arrestò bruscamente  nel 1947 quando, dopo duecento anni di colonizzazione inglese, l’India fu divisa in due nazioni: il Pakistan e l’India, generando crescenti rancori tra i sovrani e i loro sudditi e facendo precipitare il mercato dei gioielli. Gli antichi pezzi cerimoniali e le parure, simboli del potere reale precedente, furono smontati per ottenere pezzi più piccoli mentre le pietre più appariscenti furono vendute; di  conseguenza sul mercato giunsero un gran numero  di pietre preziose. Shinde adeguò la sua produzione alla nuova situazione: al posto delle gigantesche parure per l’aristocrazia, concepì gioielli più moderni e più discreti per i residenti locali e la clientela internazionale di Nanubhai.

Collier con più di 283 carati di diamanti creato per Harry Winston nel 1980.(Archivio Harry Winston).

Collier con più di 283 carati di diamanti creato per Harry Winston nel 1980.(Archivio Harry Winston).

Una grandissima capacità di adattamento, dunque, che Shinde dimostrò in particolare nel 1953 in occasione dell’acquisto di una grande quantità di diamanti indiani provenienti da una famiglia principesca. In questa occasione, riuscì a costruire un’incredibile collezione di parures composte da orecchini, collana, braccialetto e anello che furono acquistate dal maharaja de Gwalior e da Harry Winston. Quest’ultimo, venendo a conoscenza della incredibili abilità di Shinde, nel 1955, durante uno dei suoi viaggi , gli offrì un lavoro negli Stati Uniti. Non fu certo una decisione semplice per Shinde, né rientrava nei suoi progetti, ma alla fine accettò la sfida. All’epoca lui aveva quarantatré anni e aveva una famiglia numerosa a carico che chiaramente non poteva portare con sé. Prima di giungere in America, però, svolse uno stage alla succursale ginevrina di Harry Winston. Li cercò di documentarsi sulle nuove tendenze della moda, ma non conoscendo la scuola di Winston, non riuscì a lasciarsi andare completamente con la sua creatività. Fu lui ad incoraggiarlo e a convincerlo ad azzardare ed andare oltre i suoi limiti.

Collier di diamanti per Madonna, 1991, Harry Winston. Foto di Helmut Newton.

Collier di diamanti per Madonna, 1991, Harry Winston. Foto di Helmut Newton.

Shinde giunse finalmente a Manhattan e dovette imparare un nuovo stile, quello di Winston, che consisteva nell’utilizzare meno metallo possibile al fine di dare l’illusione di pietre come sospese nell’aria. Fu costretto, inoltre a collaborare con un incisore e designer ameno, Nevdon Koumriyan, un personaggio enigmatico con cui non andava molto d’accordo. Nel giro di due anni, segnato da una leggera crisi depressiva, Shinde ritornò in India. Riprese il suo lavoro da freelance che però non gli fruttava molto avendo perso molti dei suoi vecchi clienti. Successe, allora, un fatto inaspettato: il direttore creativo armeno, Koumriyan, ormai malato e morente, nominò Shinde suo successore. Fu pertanto richiamato a New York per dirigere l’atelier di Winston e gli fu affidata la responsabilità di realizzare gioielli dal valore di milioni di dollari per i clienti più ricchi e famosi del mondo, non solo per i maharajah ma anche per le icone dello star system quali Madonna, Sharon Stone, Gwyneth Paltrow e Oprah Winfrey. Il suo stile, conosciuto per i motivi a bouquet e a ghirlanda e per la luminosità sprigionata dalle pietre, mai oppresse dal metallo, fu apprezzato anche dalla Regina Elisabetta d’Inghilterra.

La regina Elisabetta d'Inghilterra indossa dei gioielli in diamanti disegnati per Harry Winston, 1982. (Anthony Buckley & Constantine Ltd, Londra).

La regina Elisabetta d’Inghilterra indossa dei gioielli in diamanti disegnati per Harry Winston, 1982. (Anthony Buckley & Constantine Ltd, Londra).

Una delle commissioni più impressionanti fu la parure realizzata per la figlia di un emiro del Vicino Oriente valutata sedici milioni di dollari e composta da diamanti, smeraldi e coronata dalla Stella d’Oriente il diamante piriforme da 80 carati.

Shinde è rimasto quasi sempre nell’ombra, sia perché a figurare era il marchio Winston, sia per la sua scelta di non ricercare attenzioni e pubblicità: per lui, infatti, creare gioielli non era un modo per diventare ricchi e famosi, bensì una vocazione spirituale.

In ogni caso, non si può ignorare il suo grande contributo al vocabolario della creazione del bijoux: seppe combinare sapientemente l’essenza delle forme orientali con l’estetica minimalista, dominata da pietre, di Winston. Ha inoltre rivoluzionato la valenza del mestiere che deve essere concepito come una forma d’arte.

Morì il 4 aprile 2003 a New York, lasciando in eredità al Gemological Institute of America più di cinquemila schizzi e studi per la formazione dei futuri gioiellieri.

(Il testo è frutto di una sintesi e di una traduzione libera del volume “Le Bijoux de Shinde” scritto dalla biografa ufficiale di Shinde, Reema Keswani . Le immagini riportate sono tratte anch’esse da questo volume. Edizione Assouline, Parigi, Francia, 2004.)

Autore: Silvia Marcassa.

borse vintage

15 Mar

Collezionare borse e borsette significa possedere un vero e proprio pezzo della nostra storia, che nasce ancor prima della moda e che quindi non può essere considerato un semplice accessorio. La sua nascita è legata essenzialmente alla sua utilità: sin dalla preistoria, prima ancora che comparissero gli abiti e i gioielli, esistevano contenitori, utilizzati prevalentemente per contenere oggetti, armi o selvaggina. Nelle antiche civiltà della Mesopotamia e dell’Egitto, venivano usate per proteggere oggetti sacri, ma anche per contenere gli oggetti da utilizzare nella vita di tutti i giorni. I primi esemplari erano in pelle, ma esistevano anche borse in tessuto di lino o piccole sporte di rete fatte con vegetali intrecciati.
Presso l’Antica Roma ebbero un grande successo dei borsellini in cuoio a forma di tasca, che gli uomini indossavano per contenere monete, mentre per le donne esistevano dei sacchi a mano; in viaggio si utilizzavano particolari bisacce doppie da portate sulla spalla, mentre per il cibo venivano utilizzati dei cesti di vimini intrecciati.
Con l’avvento del Cristianesimo la borsa assunse un significato prettamente religioso, come custodia per reliquie, oppure per contenere polveri odorose da gettare nei bracieri durante le cerimonie. Durante il Medioevo la borsa ebbe un grandissimo successo, legato al trasporto di oggetti di culto e reliquie: nacquero vere e proprie borse gioiello, in genere di stoffa con due chiusure laterali, finemente ricamate con simboli religiosi, croci e soggetti simbolici. In genere venivano realizzate in cuoio o in tessuto. La produzione più interessante si ebbe in Veneto e in Toscana, dove venivano coinvolte diverse corporazioni di Arti Maggiori e Minori: il cuoio veniva lavorato soprattutto a Firenze nelle manifatture del Ponte Vecchio, mentre i modelli in stoffa provenienti dalle botteghe dei sarti, venivano ricamati dagli Orafi con fili sottilissimi in oro zecchino e argento.
Le borse più pregiate comparvero tuttavia durante il Rinascimento, con la diffusione di diversi modelli, soprattutto in stoffa preziosa, con chiusure d’argento realizzate con la tecnica orafa della “cera persa”. I modelli maschili si appendevano alla cintura, mentre le donne indossavano lunghe catene sempre appese alla cintura (dette Chatelaine), che terminavano con robusti moschettoni ai quali venivano agganciati amuleti, piccoli ciondoli gioiello e borsette. Nel Seicento la borsa femminile riduce le sue dimensioni. I modelli più eleganti erano in velluto ricamato in oro o argento dorato, di forma ovale preziosamente lavorate con opere di oreficeria o ritratti a smalto circondati da merletti e nappe. Esistevano poi borse a forma di blasone araldico, finemente ricamate su tessuti lussuosi, dotate di chiusure in metallo pregiato oppure altri modelli di forma piatta decorati da perline a mezzo punto.
I modelli prodotti nel Settecento erano già talmente numerosi da poter essere utilizzati in ogni circostanza: esistevano borse per riporre i lavori femminili, altre da tasca con pitture o dediche alla dama, quelle per fare l’elemosina durante le funzioni religiose, le “scarselle” erano le tipiche borse da viaggio, mentre i modelli più raffinati ed innovativi erano le “ridicole”. Queste ultime devono il nome probabilmente ad una ironica storpiatura del nome originale “reticule” per canzonare i modelli stravaganti ostentati dalle dame verso la fine del Settecento. Questo modello ebbe comunque un enorme successo e continuò ad essere di gran moda fino a tutto l’Ottocento: era una borsa a sacchetto lavorato, in raso e maglia, di forma e dimensione variabili, oppure a doppio sacchetto realizzato a maglia, a volte ornato da perline e con chiusura ad anelli spesso realizzati in alta oreficeria.
Durante l’Ottocento il colore della borsa abbandonò i tenui colori illuminati da oro e argento, per puntare su tessuti di colore scuro, spesso decorati con motivi neorinascimentali o neogotici, ma sempre chiusi alle estremità con tiri ornati da nappe come nei modelli precedenti. Già comunque nel 1837, apre a Parigi la ditta Hermes, che inizia la sua produzione con articoli per l’equitazione. Verso la metà del secolo, con l’affermarsi del romanticismo, le borse divennero veri e propri capolavori di ricamo, in genere con decorazioni floreali a piccolo punto, ricamate con perline e chiuse da preziosi nastri intessuti con perline di marcassite e cerniere dorate lavorate a festoni. In questo periodo la produzione più interessante proviene dall’Inghilterra, con il diffondersi dello stile vittoriano che vedrà il suo massimo splendore durante tutta la seconda metà dell’800, con modelli di piccole dimensioni prevalentemente in seta di colore nero. A partire dal 1860 a Parigi, su incoraggiamento dell’Imperatrice Eugenia, la Maison Vouitton iniziò la produzione di modelli da viaggio e da passeggio in cuoio scuro, con ricami floreali di gusto orientale. Non a caso questo è il periodo detto del “grand tour” che vide la nobiltà di tutta Europa viaggiare senza sosta sui nuovi treni a vapore, per visitare le più famose città d’arte, ma anche l’esotico Vicino Oriente e l’India. Nascono dunque modelli estremamente pratici ispirati alla valigeria e anche i primi esemplari di borsette in cuoio con manici, dotati di interni estremamente curati con numerose tasche di seta o in pelle.
Con l’avvento dell’Art Nouveau, il Novecento vide l’affacciarsi di due modelli particolarmente apprezzati: le borsette bianche lavorate a filet e le piccole pochette con fitta decorazione a microperline bianche. I modelli più artistici erano ispirati allo Jugendstil, con decorazioni naturalistiche ricche di farfalle e scarabei, chiusure in bachelite dalle forme esotiche e sinuose. Nel 1913 intanto iniziò la sua attività Mario Prada, che aprì a Milano un laboratorio di lavorazione di pelli pregiate e modelli da viaggio. Accanto alle lussuose tracolle in seta e tessuti pregiati, in questo periodo ebbero un grande successo anche borse con tasca laterale e chiusura a scatto di grandi dimensioni e altri esemplari in raso con chiusure a scatto a forma di spirale bagnate in oro zecchino. Comparve inoltre un nuovo modello in uso ancora oggi: la pochette, o borsa a busta. Di queste si affermarono in modo particolare tre modelli: uno in cuoio di tipo sportivo, una estremamente sofisticata con eleganti decorazioni in perline e una più rara considerata dai collezionisti una vera e propria “borsa gioiello”, realizzata in maglia metallica soprattutto presso le manifatture americane come la Whiting & Davis, con chiusure lavorate a mano con cesello e bulino.

Durante gli anni Venti divennero di gran moda le borse decorate con perline e strass. I modelli più pregiati sono quelli con perline in cristallo sfaccettato di piccole dimensioni, che sono le più rare e comprendono modelli a reticule o con cerniera, finemente decorate a motivi di gusto orientale come i tappeti persiani, o paesaggi neoclassici e naturalistici. E’ in questo periodo che comparve per la prima volta la trousse da viaggio, in genere in metallo, con gli interni appositamente studiati per contenere gli oggetti da trucco, toelette, ecc.. Esistevano naturalmente borse di questo tipo anche da uomo, con la tasca per lo specchio e il pettine, l’alloggiamento destinato a contenere le spazzole per abiti, e l’esterno in cuoio lavorato, che testimoniano il successo che ebbe l’artigianato artistico durante tutto questo periodo, fino alla grande depressione del 1929.Gli anni ’30 sono associati a due grandi nomi: Elsa Schiapparelli e Chanel. I loro modelli fortemente innovativi, realizzati in materiali sintetici come la bachelite, ebbero un grandissimo successo. Estremamente richieste dai collezionisti sono le borse a bauletto o a dado, in genere di piccole dimensioni, ma assolutamente ingegnose e spesso accessoriate. I colori predominanti furono il bianco e il nero, con rifiniture dorate e chiusure decorate da smalti e bijoux. Un modello estremamente elegante e di gran moda fu in questo periodo la borsetta a mezzaluna, spesso realizzata in seta plissettata, con catenella smontabile o da inserire all’interno per utilizzarla come pochette. Anche la Maison Liberty si cimentò in questo periodo nella realizzazione di borsette con chiusure a scatto incrociato fortemente elaborate. Mentre nel resto d’Europa e in America le grandi case manifatturiere studiavano modelli sempre più stravaganti, a Firenze aprì la ditta Gucci, specializzandosi in valigeria. Con l’avvento della seconda guerra mondiale, le ristrettezze imposte all’utilizzo di alcuni materiali pregiati, spinse i designer di Gucci a studiare borsette estremamente fantasiose, con manici in bambù o in paglia intrecciata. I modelli si fecero sempre più moderni ed austeri, adatti ad accompagnare tailleurs dalla forma squadrata e le linee divennero essenziali.Subito dopo la guerra, con il diffondersi del New Look di Dior, Gucci ebbe un grandissimo successo coi modelli da sera in raso, ma anche con splendide borse in pellami pregiati lavorati con l’ antica tecnica del marcapunto. Anche in America uscirono modelli molto interessanti, soprattutto in lucite, un particolare materiale sintetico, rigido e trasparente, che permetteva l’inclusione di pizzi, strass, cannette e altri motivi ornamentali. Le firme più richieste dai collezionisti sono:Llewellyn,Gilli,Willardy, Dorset, Rialto,Tyrolean,Patricia of Miami, Toro.
L’Italia tornò ai vertici dell’alta moda a partire dagli anni ’50 ed in particolare con Roberta di Camerino, Gucci e altre firme. Si diffusero borse di grandi dimensioni come la “bagonghi” : un modello ampio con manico corto per il giorno; ma ebbero un grande successo anche eleganti pochette per la sera in tessuto pregiato. E’ di questo periodo la mitica borsa Kelly di Hermès, modello prediletto da Grace Kelly di Monaco, dalla quale prese il nome.
Con lo sbarco dell’uomo sulla luna e il diffondersi dello stile spaziale, gli anni Sessanta videro in Italia il successo di Emilio Pucci e Paco Rabanne, che puntarono sulla cosiddetta “optical art” per creare effetti psichedelici e forme sperimentali legate al movimento futurista. Oltre ai materiali sintetici come la celluloide e il Rhodoid, hanno fatto epoca i modelli in maglia metallica e quelli dipinti a scorci paesaggistici o con monogrammi come quello di Gucci usato ancora oggi. Per quanto riguarda gli anni Settanta, notevoli sono i modelli di Cartier in camoscio modello “postino” e le borse country. I nomi più importanti in Italia furono Redwall, Fiorucci e Pierre Cardin, capaci di soddisfare un pubblico elegante ma anche sportivo, impiegando materiali stampati in finto maculato, ma anche vacchetta e cuoio, con forme a secchiello, a fagiolo o a soffietto.

A partire dagli anni Ottanta fino ad oggi, la borsa diventa un vero e proprio status symbol. Le grandi firme si moltiplicano e soddisfano una gamma sempre più ampia di clientela. La piccola pochette rimane il tipico oggetto da sera, ma i modelli da giorno a tracolla e a due manici vengono ormai prodotti da una grande quantità di designer che vanno da Coveri, Pancaldi, Pucci, Nazareno Gabrielli, Moschino, Vouitton, Timberland, Ken Scott e tantissimi altri. Ognuno di loro lancia il proprio stile e si rivolge ad un preciso utilizzo della borsa: nascono i modelli da lavoro con interni accessoriati per contenere i documenti, quelli da viaggio e sport in pelli estremamente resistenti, quelli a zainetto per andare in bicicletta, altri con la chiusura antifurto…tutti con grande sperimentalismo di materiali e design.
Degli anni Novanta, voglio ricordare anche i mitici modelli della Etro in tessuto stampato a motivi persiani e tracolla in corda, le selvagge borsette di Cavalli e le indimenticabili tracolle di Ritz Saddler in cuoio stampato a rilievo, con le due testine di cavallo affiancate e il monogramma. Ormai il panorama è vastissimo, non si seguono regole di galateo nella moda e la libertà è assoluta: si può sfoggiare una elegantissima kelly di Hèrmes ma anche un borsone della Adidas, uno zainetto della Vouitton o una elegantissima borsa gioiello della Fendi.
Tutto è lecito ma una cosa è rimasta sempre la stessa: la borsa è un oggetto adatto a contenere gran parte della nostra vita quotidiana, utile ed elegante, da scegliere con estrema cura e molto personale, altamente collezionabile ma che raramente si regala a qualcuno, dal quale è difficile separarsi come un piacevole ricordo.
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