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Andrew Grima

10 Lug

Nel dopoguerra il Regno Unito conobbe la sua peggiore crisi economica, politica e morale di tutti i tempi. Anche se la guerra era stata vinta, il prezzo pagato fu spaventoso. La crisi che gli inglesi affrontarono si protrasse per tutti gli anni ’50.

Andrew Grima, 1972

Andrew Grima, 1972

Il paese iniziò la decade successiva in sordina, ancora sopraffatto dalla depressione economica. Ben presto però, il paese vide un futuro al di là del buio degli anni trascorsi nell’austerità dettata dalle dure politiche economiche. Due eventi avvennero, nello stesso giorno del 1962, grazie ai quali la nazione tornò alla ribalta. Il 5 ottobre uscì il primo 45 giri dei Beatles, “Love me Do”. I 4 ragazzi di Liverpool con quel disco diedero inizio a una rivoluzione culturale e sociale. Energia e vitalità scossero la severità che per tanti anni attanagliarono il Regno Unito.
Ancora più importante fu l’uscita nelle sale cinematografiche della prima e acclamatissima pellicola di “Agente 007 – Licenza di uccidere”. Si ricorderà quindi un affascinante Sean Connery nei panni di James Bond e di un’ancora più intrigante Ursula Andress, prima Bond Girl della storia, creando anche una nuova immagine di donna sensuale e mozzafiato.
Questi avvenimenti riportarono Londra sulla cresta dell’onda, tornando ad essere una delle capitali più alla moda degli ultimi tempi.

Spilla in oro e diamanti, Andrew Grima, 1973

Spilla in oro e diamanti, Andrew Grima, 1973

La libertà e la creatività si diffusero nella capitale inglese. Anche l’abbigliamento venne selvaggiamente modificato. Artefice fu Mary Quant che dal 1965, immise sul mercato la minigonna e stravolse il modo di vestire la donna. Anche i colori divennero vivaci e contrastanti rispetto al classico abbigliamento color “fumo di Londra” che vestiva la società inglese.
È in questo clima di libertà che anche la gioielleria trovò un nuovo modo di esprimersi nella figura e nel genio creativo di Andrew Grima. Mai nella storia del gioiello si videro pezzi così all’avanguardia, diversi da tutti quelli che erano stati ideati e prodotti fino a quel momento.

Il suo stile, a differenza di quello consueto, proponeva pezzi fuori dall’ordinario. Le sue creazioni erano caratterizzati da oro lavorato e rocce non convenzionali creando effetti straordinari.
I metalli, specialmente l’oro, venivano lavorati imitando texture organiche, dalle rocce alle corteccie di alberi, da ramoscelli ai frastagliati contorni di stalattiti e stalagmiti.

Ursula Andress indossa i gioielli disegnati da Grima vincitori del Duke of Edinburgh Prize nel 1966

Ursula Andress indossa i gioielli disegnati da Grima vincitori del Duke of Edinburgh Prize nel 1966

Grima si ispirava all’intero mondo organico e naturale, utilizzando proprio elementi naturali per creare gli stampi in cui venivano colati i metalli fusi. A completare i pregiati pezzi venivano accostate pietre preziose o meno. Non era raro vedere insieme pietre di poco valore e diamanti. Grima mise, quasi sempre, in secondo piano diamanti e altre pietre preziose. Queste servivano a dare luce alle pietre semi-preziose e alle delicate texture dei metalli lavorati.
Rivoluzionò il mondo della gioielleria, scavalcando la tradizione e i gioielli stereotipati. Non si può rimanere che senza parole davanti ai gioielli di Andrew Grima.

Grima nacque nel 1921 a Roma da padre maltese e madre italiana compiendo gli studi al St.Joseph College a Londra. Prestò servizio nella Seconda guerra mondiale in India e Birmania come ingegnere dopo aver studiato all’Università di Nottingham. Nel 1946 si unì al futuro suocero nella sua gioielleria a Londra. Grima che non aveva avuto una preparazione in oreficeria o design, meravigliò tutti quando presentò la sua prima improvvisata collezione creata da una valigia piena di pietre semi-preziose grezze comprata da un venditore brasiliano.

Andrew Grima, Spilla in oro e diamanti, 1968circa

Andrew Grima, Spilla in oro e diamanti, 1968circa

Dopo la morte del suocero, nel 1951, Grima vendette l’azienda a un compratore di pietre con la clausola di rimanere come designer, sperimentando su materiali e disegni finché non gli furono commissionati dei pezzi basati su modelli in cera disegnati da scultori come Kenneth Armitage, Elisabeth Frink e Bernard Meadows per un’esposizione di gioielleria moderna nel 1961, organizzata dalla Worshipful Company of Goldsmiths.

Grima offrì a Graham Hughes, il curatore della mostra, alcuni dei suoi pezzi e lui colpito da questi, lo introdusse a nuovi potenziali ricchi clienti. Tra i clienti più importanti si contano Jacqueline Onassis, la scultrice Barbara Hepworth, la prima Bond girl Ursula Address e soprattutto Lord Snowdon, con cui stringerà un lungo e duraturo rapporto di amicizia, grazie al quale Grima diventerà il gioielliere della famiglia reale, creando gioielli per la Principessa Margaret, moglie del Lord Snowdon e per la Regina Elisabetta II. Si può ricordare tra le preziose opere d’arte, la spilla in oro con rubini e diamanti, comprata dal Principe Filippo di Edimburgo e regalato a sua moglie, la Regina, nel 1966, che fece molte apparizioni sulle vesti e sui cappotti della sovrana inglese in svariate occasioni, come il messaggio natalizio televisivo della Regina nel 2007 proprio il giorno antecedente alla dipartita del gioielliere.

La Regina Elisabetta II indossa la spilla di Grima in oro con rubini e diamanti regalata dal marito il Principe Filippo nel 1966

La Regina Elisabetta II indossa la spilla di Grima in oro con rubini e diamanti regalata dal marito il Principe Filippo nel 1966

La bellezza, l’eleganza e l’originalità che Grima rifletteva nei suoi pezzi lo portò a vincere numerosi premi, tra cui il “Duke of Edinburgh Prize for Elegant Design” per la prima volta ottenuto da un gioielliere. La fama e la ricchezza ricavata dalla vendita di clienti facoltosi, lo portò ad avere negozi globalmente, aprendo a New York, Sydney o Tokyo. Di grande successo fu la collezione “About time” nel 1969 da lui ideata per l’azienda Omega. La collezione era formata da 85 orologi, ognuno dei quali era caratterizzato da un quadrante in pietra preziosa, invece che vetro, dallo stile unico.

Con i suoi gioielli fuori dall’ordinario, Grima sconvolse il mondo della gioielleria tradizionale, influenzando molte generazioni a venire. Dopo la morte nel 2007, le redini dell’azienda furono prese in mano dalla figlia Francesca, continuando con lo stile avanguardistico del padre.

Scorpio Watch, Andrew Grima per Omega, 1969

Scorpio Watch, Andrew Grima per Omega, 1969

Grima certamente non è un nome tra i più conosciuti, ma il suo nome come il suo stile, viene riconosciuto da poche persone, quelle che contano. I clienti che si possono permettere i costosissimi gioielli di Grima sono quelli che collezionano arte, sculture e dipinti e soprattutto collezionisti che vedono nei gioielli di Grima l’unicità e la bellezza.  Spesso nei grandi gioielli non c’è bisogno di guardare il logo o la firma per riconoscerne il fautore di quel piccolo pezzo d’arte. Come in pochi altri casi i gioielli di Grima sono talmente unici e iconici che si possono riconoscere anche da lontano.

Autore: Giulia Antonaz

Photo credits: pinterest.com; grimajewellery.com; gq-magazine.co.uk

Cartier

19 Giu

Con la fondazione del marchio Cartier, la gioielleria ha scritto uno dei più gloriosi capitoli nella storia delle arti decorative. In un secolo e mezzo di produzione i gioiellieri non hanno mai sacrificato la qualità ed hanno dato vita a dei capolavori: collane, bracciali, perle e gioielleria di ogni tipo.

Louis-François Cartier nacque nel 1819 a Parigi, il padre era un produttore di corni per polvere da sparo. All’età di ventott’anni, L.F. Cartier subentrò a Picard nella direzione del laboratorio di Rue Montorgueil che rimase la sede fino al 1853, anno in cui trasferì  gli affari al numero 9 di Rue Neuve-des-Petits-Champs (che si trovava tra la Borsa e il Palais-Royal) e si specializzò nella vendita a soli clienti privati. Cartier non poteva certo immaginare la fama di cui avrebbe goduto più tardi e che il suo destino sarebbe stato quello di catturare lo splendore nascosto delle gemme concepite per luccicare sulla fronte dei re e sulle mani delle regine. Il fatto è che Cartier fu benedetto da un dono straordinario: l’opportunità di iniziare la sua collaborazione con il famoso stilista Charles Frédéric Worth, un eccentrico  che vestiva sempre alla maniera di Rembrandt (come anche Richard Wagner usava fare). Ciò avvenne nel 1859 quando aprì il suo nuovo showroom a Boulevard des Italiens. Lì, nel cuore pulsante di Parigi, Worth stava per lanciare la moda della crinolina e quello che risultò dall’incontro fu l’invenzione della haute couture. La comunione tra tessuto e pietre preziose segnò in quel momento l’inizio del connubio tra moda e arte del gioiello. Cartier fece dei suoi gioielli l’ultima componente dell’abito alla moda. Da quel momento in poi, la crême della società europea avrebbe bussato alla sua porta. L’unione di questi due universi, fu consolidata due generazioni dopo con il matrimonio di Andrée Worth, nipote del grande stilista, e il nipote di Cartier Louis Joseph.

Gioielliere dei re, re dei gioiellieri

Nel frattempo, nell’angusta sede di Rue Neuve-des-Petits-Champs, il marchio Cartier stava per realizzare il suo primo colpo da maestro.

L.F. Cartier aveva trentasei anni quando la Contessa di Nieuwerkerke entrò per la prima volta nel suo negozio nel 1855. Nel giro di tre anni, avrebbe acquistato presso il suo negozio qualcosa come cinquantacinque oggetti. Suo marito era il sovraintendente alle belle arti di proprietà di Napoleone III ed era, inoltre, amico della Principessa Mathilde, anch’essa nipote di Napoleone I. Fu così che anche la principessa scelse di commissionare alcuni gioielli a Cartier: cammei con teste di medusa, orecchini ecc. Infine anche l’imperatrice Eugénie, la moglie di Napoleone III, ordinò a Cartier un servizio da tè in argento.

Le prospettive di Cartier vennero stravolte: grazie all’enorme richiesta, traferì la sede a  Boulevard des Italiens, che si trovava a due passi da Palazzo Garnier, il cui stile napoleonico starebbe stato, più tardi, guardato come rappresentativo di quel periodo.

Bracciale "Les Èlephants" proveniente dalla collezione "Route des Indes". In oro giallo e pietre preziose tra cui rubini, zaffiri e smeraldi, fu disegnato nel 1989.

Bracciale “Les Èlephants” proveniente dalla collezione “Route des Indes”. In oro giallo e pietre preziose tra cui rubini, zaffiri e smeraldi, fu disegnato nel 1989.

Ovunque le corti inviavano ambasciatori per investigare sul lodato gioielliere che veniva celebrato da tutti e, a tempo debito, divenne il gioielliere per le occasioni speciali di un certo numero di famiglie reali. Ben cinquanta commissioni vennero finanziate, tra il 1904 e il 1939, che consacrarono Cartier fornitore ufficiale delle teste coronate d’Europa. Oltre a ciò, c’erano anche ordinazioni disposte dal Re Edward VII d’Inghilterra (in occasione del suo matrimonio Cartier dovette fornire ventisette tiare), da Alfonso XIII di Spagna nel 1904 e, l’anno seguente, da parte di Carlos I di Portogallo. Successivamente vennero eseguiti lavori per lo Zar Nicholas II nel 1907, per il re Paramindr Maha Chulalongkorn del Siam nel 1908 (che scelse dei braccialetti in quantità tale da riempire un vassoio!), per il re Giorgio I di Grecia nel 1909 ed infine anche per il re Zog di Albania nel 1939. Numerosi furono pure quelli per Edward VII, al tempo ancora principe del Galles, che descrisse Louis Cartier come “il gioielliere dei re oltre che re dei gioiellieri”.

L’audace originalità del genio

Il fondatore della casa Cartier era dotato non solo di un appassionato amore per le pietre preziose ma anche di un gran senso degli affari. Solo Cartier seppe combinare (scelta azzardata all’epoca) modelli etruschi, greci e romani con dei design moderni. Trasse ispirazione anche dalle sculture, in particolare “La danza” di Jean-Baptiste Carpeaux, ma anche dal mondo animale e marino (cavalli, farfalle, granchi). La forza creativa di Cartier stava proprio nell’abilità di combinare infinite varietà stilistiche con la purezza nelle linee, senza mai violare i dettami delle convenzioni dell’epoca. Questo rappresentava l’audacia del genio, quando invece gli altri grandissimi nomi della gioielleria – Eugène Fontenay, Charles Christofle e Fortunato Pio Castellani- subivano tutti l’influenza dell’esposizione della Campana Collection del 1861, al Louvre che  consisteva in antiche opere d’arte poco prima acquistate da Napoleone III.

Pendente con dea dal vestito drappeggiato in stile rinascimentale contornata da una struttura in oro , argento e pietre preziose. Appesa a questa cornice, una perla a goccia. Cartier, 1900.

Pendente con dea dal vestito drappeggiato in stile rinascimentale contornata da una struttura in oro , argento e pietre preziose. Appesa a questa cornice, una perla a goccia. Cartier, 1900.

Rue de la Paix

Nel 1874 Alfred Cartier (1841-1925) assunse la gestione del negozio del padre in Boulevard des Italiens e nel 1898 fu affiancato dal figlio Louis Joseph (1875-1942), che fu l’ultimo ad ereditare il sesto senso per gli affari del nonno Louis-Francois e colui che trasferì la firma in una nuova era.

Prima di tutto spostò la sede in Rue de La Paix, simbolo del lusso a Parigi, e qui, nella strada più elegante del mondo, socializzò con il profumiere Guerlain e con gli stilisti Frédéric Worth e Jacques Douce. Fu il momento in cui emerse una diffusa esigenza di novità. I gioiellieri come Charles Lalique promossero lo stile dell’Art Nouveau in cui le influenze orientali venivano combinate con le innovazioni tecniche europee; tuttavia Louis Cartier non condivise il generale entusiasmo per lo stile che si stava diffondendo per l’europa e fiorendo a Vienna, Bruxelles e Parigi sotto una varietà di nomi diversi: Secessione, Jugendstil e style nouille. La sua riluttanza nell’abbracciare completamente l’Art Nouveau come fecero, al contrario, i suoi colleghi, determinò la direzione che avrebbe preso l’intero design di Cartier. Louis Cartier era più inclinato alla tradizione: passava le notti a leggere con entusiasmo le raccolte d’arte francese del diciottesimo secolo, a studiare dipinti, bronzi e merletti. Allargò il campo dei suoi interessi anche ai motivi arricciati e aggrovigliati dell’arte islamica. Il suo scopo era quello di cogliere la semplicità e la purezza della linea che avrebbe esaltato il motivo floreale che nell’Art Nouveau era troppo stilizzato e deforme per i suoi gusti. La sua ossessione però erano i diamanti: era alla continua ricerca di metodi per esaltare le pietre a discapito delle montature, per fare apparire le prime al massimo della loro lucentezza. Proprio andando a scavare nella tradizione francese, nacque il famoso “stile a ghirlanda” che Cartier realizzava prevalentemente su platino creando curve fluenti che parevano disegnate con il compasso e in cui anche i vuoti giocavano una ruolo importante nella composizione. La continua ricerca verso la brillantezza pura, lo portò a realizzare creazioni che non oscurassero in nessun modo la pietra, giunse a concepire, perciò, i motivi a fiocco, a merletto e a nappa che rappresentano gli elementi distintivi di uno stile che ricercava un’alternativa all’imperante moda dell’Art Nouveau. Louis Cartier riuscì a portare nella sua era un rinnovato classicismo che avrebbe presto attirato un esercito di ammiratori dai gusti esigenti.

Elizabeth Taylor indossa un collier Cartier realizzato nel 1969. A fianco la "Adéle necklace" composta da 291 diamanti.

Elizabeth Taylor indossa un collier Cartier realizzato nel 1969. A fianco la “Adéle necklace” composta da 291 diamanti.

Parigi, Londra, New york

Dato il successo raggiunto, la firma decise di varcare i confini per incontrare nuovi clienti. I due fratelli di Louis, Jacques e Pierre, aprirono rispettivamente le loro filiali a Londra e a New York. Balenò in loro l’idea di aprire un outlet a San Pietroburgo, seguendo la scia del grande Fabergé molto amato in Russia e in onore del quale la casa Cartier realizzò alcune uova alla sua maniera e piccole sculture tempestate di pietre,  ma infine decise semplicemente di inviare un rappresentante fisso in Russia, scelta azzeccata, visti gli sconvolgimenti politici imminenti. Un’altra scelta azzeccata fu quella di adattare i gioielli alla nuova moda del 1900 che stava attraversando una rivoluzione: gli abiti dalle linee dritte e semplici da tutti i giorni, potevano essere impreziositi da lunghi pendenti e luminose perle. Le perle, in effetti, negli anni che precedettero la prima guerra mondiale, surclassarono le tiare, allora diffusissime, ma troppo appariscenti e lussuose, perché sembravano più modeste ed appropriate. Il mercato delle perle subì un arresto con la crisi del ’29, ma nel frattempo cominciarono ad arrivare le perle giapponesi che, nonostante l’inferiore qualità, ebbero larga diffusione assieme a quelle nere di Tahiti. Due fili di perle di Cartier, valutati un milione di dollari, permisero alla società di acquistare la casa del banchiere Morton F.Plant lungo la Fifth Avenue, nel cuore di New York e di trasferirvisi.

Collana "Tutti Frutti" in platino con smeraldi, zaffiri, e rubini incisi a forma di foglie e frutti. I tredici zaffiri pendenti sono a taglio "briolette". Cartier, Parigi, 1936

Collana “Tutti Frutti” in platino con smeraldi, zaffiri, e rubini incisi a forma di foglie e frutti. I tredici zaffiri pendenti sono a taglio “briolette”. Cartier, Parigi, 1936

I balletti russi

Negli anni la maison Cartier aveva affinato il suo stile. Nonostante la riluttanza nei confronti dell’Art Nouveau, i tre fratelli erano molto sensibili agli stimoli esterni. Nel 1909 aderì al marchio Cartier il talentuoso progettista Charles Jacqueau, appassionato di orientalismi e sempre alla ricerca di ispirazione. Folgorato dalla compagnia di ballo Diaghilev/Nijinski, estasiato in particolare dalle giustapposizioni di colori vivi e contrastanti e dalle combinazioni delle scenografie,riversò nei gioielli che furono arricchiti da pietre colate, come ametiste, zaffiri e smeraldi, ma anche da pendenti cinesi e giapponesi, trasformando la produzione Cartier. Da queste audaci combinazioni nacque, per esempio il Peacock-design, molto apprezzato dalla Viscontessa Astor che fu anche la prima ad indossarlo.

Louis Cartier continuò a sperimentare traendo ispirazione dalle cose più varie ed umili, come ad esempio le retine per capelli, per costruire montature più flessibili. Le sue creazioni, se da un lato potevano sconcertare il pubblico, dall’altro potevano anche suscitare in lui un grande fascino.

Orologio da polso squadrato in oro e platino il cui quadrante è tempestato di brillanti. Il bracciale è composto da perle e onice. Cartier, Parigi, 1912.

Orologio da polso squadrato in oro e platino il cui quadrante è tempestato di brillanti. Il bracciale è composto da perle e onice. Cartier, Parigi, 1912.

Cartier time

Operando nel settore del lusso e della gioielleria, era inevitabile che la firma avrebbe sviluppato un interesse per l’orologeria. Nel lontano 1904 Louis Cartier aveva prodotto un orologio come tributo per il coraggio dell’aviatore brasiliano Santos Dumont. Con le sue linee pulite che evocano la velocità, quel modello fu messo in commercio nel 1911. Qualche anno più tardi arrivò il modello “Tank”, la sua forma squadrata si ispirava direttamente alle macchine militari che, sfortunatamente, sembravano avere un promettente futuro. Nei laboratori Cartier l’ingegnoso Maurice Coüet fece un gran balzo in avanti con la linea dei “Mistery clocks”, basati su un sistema sviluppato  da Jean Eugene Robert Houdin durante la metà del diciannovesimo secolo. Le lancette di questi orologi parevano fluttuare all’interno della superficie trasparente. Il meccanismo che le regolava semplicemente spariva alla vista e le lancette sembravano muoversi da sole, come per magia. In realtà, ogni lancetta era fissata in un disco di vetro dentellato mosso da una vite, così il meccanismo rimaneva nascosto nella base. L’illusione creata – insieme al senso palpabile del passare del tempo- faceva di questi orologi degli oggetti affascianti. I “Comet Clocks”  gli orologi a colonna e a pendolo, i “Turtle clocks, i “Chimaera Cloks” ecc.  sfruttavano la forza di gravità trasformata in un intricato sistema di ingranaggi. Alcuni di questi orologi sarebbero stati visti non solo come dei capolavori dei loro inventori ma anche come vanto per l’intera orologeria.

Turtle-Chimaera mystery table clock. Cartier, Parigi, 1943.

Turtle-Chimaera mystery table clock. Cartier, Parigi, 1943.

Panthera pardus

Durante la depressione successiva al crollo del ‘29, Louis Cartier trovò un’ottima alleata in Jeanne Toussaint. Amica di Coco Chanel, questa donna straordinaria, più tardi soprannominata “la pantera”, ebbe il totale controllo delle creazioni Cartier per un periodo di circa vent’anni. Nonostante non sia mai stata una designer, era talentuosa e fu molto apprezzata.  Nel 1933 jeanne Toussaint si occupò di alta gioielleria. Negli ultimi anni dell’Art Deco fece della pantera un oggetto di culto, una sorta di marchio. Era sempre alla ricerca di nuove idee e, sotto la sua direzione, il reparto tecnico sviluppò una serie di invenzioni destinate a combinare la solidità della costruzione con la comodità dell’uso: fibbie, clips modellate sulle mollette da bucato, spille composte di più parti per poterle adattare/comporre. Cartier stava emergendo nel mondo della moderna produzione di accessori. Fu creato un nuovo “Department  S”, indirizzato alla produzione di lussuosi  oggetti da regalo e accessori pratici come orologi da taschino, cinture e accendini. Molte nuove linee vennero prodotte, anticipando la gamma “les must de cartier” introdotta nel 1973. Era un nuovo mondo, un nuovo settore, un tentativo di provvedere al  contemporaneo settore delle merci di lusso.

"Jooghi brooch" incrostata da 453 brillanti e 68 zaffiri. Cartier, Parigi,1988.

“Jooghi brooch” incrostata da 453 brillanti e 68 zaffiri. Cartier, Parigi,1988.

Quando sia Louis che Jacques persero i loro business nel 1942 con lo scoppio della seconda guerra mondiale, la gestione della firma in Rue de la Paix, passò a Jeanne Toussanit e Pierre Lemarchand. Insieme, i due, cercarono l’ispirazione allo zoo di Vincennes, ma siccome il bestiario di Cartier era già riccamente fornito di pantere, zebre e gusci di tartaruga usati sia come base per il design, sia come sfondo su cui sviluppare altre creazioni, la collezione fu incrementata ulteriormente con oggetti presi in prestito dal mondo della flora e della fauna dell’Asia. Draghi e chimere erano utilizzate per abbellire orologi da tavolo, spille e pendenti, ma anche elementi simbolici provenienti dall’estremo oriente e dalla Germania furono introdotti per la prima volta nel repertorio di Cartier. Nel 1954, infine,  Jeanne Toussant rintrodusse il chimera style che era stato enormemente popolare nel 1920, ma la novità ora era rappresentata dal fatto che addomesticava i mostri e li trasformava in adorabili animali domestici. Furono immediatamente adottati dalla Baronessa D’Erlanger e dall’Onorevole Mrs Fellowes,  entrambe appassionate di gioielleria artistica.

Spada accademica di Jean Cocteau. Guardia modellata sul profilo di Orfeo, impugnatura culminante con una lira nella quale è incastonato uno smeraldo donato da Coco Chanel. Sul dico in avorio alla base dell'elsa appare una stella a sei punte con rubini a cabochon con al centro un diamante fornito da Francine Weisweiller. Archivio Cartier.

Spada accademica di Jean Cocteau. Guardia modellata sul profilo di Orfeo, impugnatura culminante con una lira nella quale è incastonato uno smeraldo donato da Coco Chanel. Sul dico in avorio alla base dell’elsa appare una stella a sei punte con rubini a cabochon con al centro un diamante fornito da Francine Weisweiller. Archivio Cartier.

Clienti leggendari

Aprono la lista il duca e la duchessa di Windsor. Nel 1948 il duca commissionò una spilla con pantera per la moglie. Il gioiello consisteva in una pantera in oro, un leopardo in realtà, il cui mantello è picchiettato di minuscole pietre preziose, sdraiata su uno smeraldo cabochon del valore di 116.74 carati. Questa pantera tridimensionale fu la prima della serie. Negli anni successivi, di nuovo i Windsor richiesero uno zaffiro cabochon decorato con un leopardo seduto incrostato di diamanti e zaffiri. L’Onorevole  Fellowes, che competeva con la duchessa di Windsor per il titolo di donna meglio abbigliata del mondo, ne commissionò per sé una di simile. Nel 1957, la principessa Nina Aga Khan fu la destinataria del più prestigioso gioiello tra quelli della serie pantera: una spilla pendente da jabot e un bracciale con due teste di leopardo.

Tra gli esponenti di spicco francesi, i marescialli Foch e Petain si rivolsero a Cartier per i loro bastoni e spade da cerimonia. Il primo membro dell’Académie Française a richiedere i servizi di Cartier come creatore di spade, fu il duca di Gramont nel 1931. La sua fu la prima di una lunga serie di spade accademiche prodotte da cartier, tra le quali si annovera anche quella per Jean Cocteau:  nel 1955, il poeta commissionò una spada da lui disegnata ispirata al tema di Orfeo. Il suo stile ebbe una sostanziale influenza sulla produzione successiva di cartier. Fu proprio Cocteau a definire Cartier “uno scaltro mago in grado di catturare un pezzo di chiaro di luna insidiato da un raggio di sole”. Cartier gli donò un anello fatto di tre fasce d’oro, ognuna in un diverso e simbolico colore -grigio per l’amicizia, giallo per la costanza e rosa per l’amore- un pezzo originale di rara semplicità e perfezione.

Collana di diamanti con smeraldo rettangolare. Cartier, Londra, 1932.

Collana di diamanti con smeraldo rettangolare. Cartier, Londra, 1932.

Cartier e le arti

Nel 1983 Cartier decise di istituire una personale retrospettiva. Può sembrare paradossale che la firma che aveva sede a Rue de la Paix, non possedesse esempi delle  proprie creazione. Per organizzare l’esposizione, il curatore della collezione Cartier Eric Nussbaum mise insieme 1500 pezzi, con estrema difficoltà, dovendo ricorrere ad aste e vendite private dato che in ogni famiglia i gioielli sono  l’ultima cosa che viene venduta. I pezzi del diciannovesimo secolo, in particolare erano pochi, poiché si usava scomporre e rimodellare pezzi antichi in favore di forme più moderne.

Grazie all’esistenza di una collezione d’archivio in espansione, delle favolose esposizioni sono state organizzate in tutto il mondo, sotto l’egida di Franco Cologni, il vice-presidente Cartier, a partire dalla celebrazione del centocinquantesimo anniversario della firma, nel 1997. In quell’occasione il MET di New York e il Brithish Museum di Londra allestirono congiuntamente un’importante esposizione sponsorizzata da Cartier. Negli ultimi anni i temi hanno incluso il potere dei segni, la grandezza dell’Egitto e i misteri dell’india.

Nel 1984, il presidente della compagnia Alain Dominic Perrin, decise di istituire la Fondazione Cartier per l’Arte Contemporanea. In collaborazione con l’architetto Jean Nouvelle mise mano al progetto di disegnare la struttura a Boulevard Raspail, dimostrando che l’arte del passato poteva convivere in modo appropriato con una moderna architettura dove, ancora una volta i meccanismi erano nascosti: la vera incarnazione dello spirito della casa Cartier.

(Il testo è frutto di una sintesi e di una traduzione libera del volume “Cartier” dello scrittore ed architetto Philippe Trétiack (reporter di Elle Magazine). Le immagini riportate sono tratte anch’esse da questo volume. Edizione Assouline, New York, USA, 2004.)

Autore: Silvia Marcassa

Il movimento cubista nei gioielli, origini e influenze

5 Giu

” The hand of the artisan became an extension of that of the artist who was not a skilled metalsmith”

Alexander Calder

Il cubismo portò una vera e propria rivoluzione nel mondo artistico. Senza una miccia ben precisa della sua esplosione, si possono ricondurre al alcuni eventi la nascita di questo movimento. Il termine viene fatto risalire a un’osservazione di Henri Matisse, quando davanti a L’Estaque nel 1908 di Georges Braque, lo interpretò come un insieme di piccoli cubi. Da molti, Braque viene considerato il primo cubista della storia. Insieme a lui, nella fama di artista cubista, non ci si può certo dimenticare di Pablo Picasso. Con il quadro Les demoiselles d’Avignon,  provocò grande scalpore.

Les demoiselles d'Avignon, Pablo Picasso, 1907, MoMa, New York

Les demoiselles d’Avignon, Pablo Picasso, 1907, MoMa, New York

I due quadri considerati gli apripista del movimento cubista, influenzarono ben presto altri artisti e non solo.

Il cubismo ripropose la centralità degli elementi formali essenziali della pittura: lo spazio e la composizione. Direttamente influenzati dalle opere di Paul Cézanne, Picasso e Braque si rifecero ai tre moduli fondamentali: la sfera, il cono e il cilindro. L’esigenza era quella di mostrare la realtà non come appariva, ma nel modo in cui la mente ne percepiva l’apparenza.

A questo movimento e ad altre influenze durante il periodo delle avanguardie artistiche dei primi anni del Novecento, lo stile dell’Art Déco si ispirò per la creazione dell’architettura, della moda, della gioielleria.Cubismo, Fauvismo, e gli altri movimenti, si mescolavano nei nuovi gioielli, che cambiarono totalmente dallo stile floreale e armonioso dell’appena passato stile dell’Art Nouveau.

Anello con ritratto di Dora Maar, Picasso, 1936-1939

Anello con ritratto di Dora Maar, Picasso, 1936-1939

Nel 1925 all’Esposizione Internazionale di Parigi, una grande parte fu dedicata alla gioielleria. I gioiellieri crearono gioielli dalle forme semplice, angolari e geometriche, nei quali la decorazione superflua era ridotta al minimo o completamente abolita. Le loro creazioni assomigliavano sempre più a opere d’arte che a gioielli ornamentali.

E queste piccole opere d’arte, fatte sempre con pietre molto preziose, non erano ovviamente per tutte le tasche. I gioielli erano per lo più creati per la gente ricca ed elegante, sempre alla moda, e attenta alle varie tendenze artistiche.

Negli anni ’20 e nella decade successiva, non solo gioiellieri famosi, come George e Jean Fouquet, produssero gioielli ispirati alle linee cubiste. Alcuni degli artisti, promotori del movimento, si cimentarono nella creazione di gioielli. Un particolare esempio ne è il “tesoro” di Dora Maar, amante del grande artista cubista Pablo Picasso.

Le grand faune, Picasso e Francois Victor-Hugo

Le grand faune, Picasso e Francois Victor-Hugo

Alla morte della fotografa e artista croata, nel 1997, vennero trovati nell’appartamento oltre a un considerevole numero di disegni e dipinti, una rilevante quantità di gioielli che Picasso creò durante gli anni della loro relazione. Il “tesoro” raccoglieva anelli, spille, pendenti vari, decorati o incisi per lo più con ritratti della stessa, ma anche pietre o frammenti di ceramica e terracotta, usati come amuleti.

La produzione particolare di questi anni, non ha niente a che vedere con quella che sarà la collaborazione degli anni ’50 e ’60 con Francois Victor-Hugo. I gioielli per Dora Maar erano gioielli sentimentali, pezzi unici mai più realizzati. Differente fu la cooperazione tra Picasso e Hugo.

Spilla in oro e zaffiri, Braque e Barone Heger de Lowenfeld, 1960s

Spilla in oro e zaffiri, Braque e Barone Heger de Lowenfeld, 1960s

Incontratosi nel 1954, i due portarono avanti per quasi 10 anni, un sodalizio tra la mente dell’artista e l’abilità orafa del gioielliere, creando pezzi, medaglioni e pendenti che divennero piccoli segmenti creativi dell’artista.

Altro artista che si cimentò nel campo della gioielleria nei primi anni ’60, fu George Braque. Nel 1961 con l’aiuto dell’amico, il Barone Heger de Loewenfeld, creò la sua prima e unica collezione di gioielli.

Trasformò i suoi disegni bidimensionali, in piccole sculture portabili. I gioielli, per lo più oro, riprendono motivi di uccelli o di volti di donna stilizzati. La maggior parte dei lavori realizzati vennero poi presentati nel marzo del 1963, al Louvre con la mostra “Bijoux de Braque”.

Spilla, Vendome. 1960s

Spilla, Vendome. 1960s

L’artista, deceduto pochi mesi dopo dall’apertura dell’esposizione, ebbe così modo di vedere una mostra a lui dedicata.

I gioielli di questi due artisti, hanno una connotazione così decisa che anche per chi non se ne intende è possibile attribuire ogni pezzo al suo autore solo se conosce la produzione pittorica o scultorea dell’artista che l’ha ideato. Negli stessi anni non solo gli artisti che desideravano fare “arte indossabile”, si cimentarono nell’ideazione e creazione di gioielli cubisti. Molti gioiellieri si ispirarono a Picasso e Braque, per creare oggetti preziosi di ispirazione cubista. Tra i più famosi possiamo ricordare Vendome, operativo tra il 1944 e il 1979, creò alcune spille chiaramente ispirate a George Braque.
Molti negli anni si ispireranno alle linee cubiste che dai primi anni del ‘900 hanno influenzato e ancora influenzano oggi l’arte, la moda e anche i gioielli.

Autore: Giulia Antonaz

Photo credits: cultura.biografieonline.it; thejewelryloupe.com; artribune.com; morninggloryjewelry.com

Lo stile rétro nei gioielli da cocktail degli anni ’30

25 Mag

Lo stile rétro nei gioielli da cocktail degli anni ’30.

Il Flower Power tra moda e società

23 Mag

The weight of the world
is love.
Under the burden
of solitude,
under the burden
of dissatisfaction
the weight,
the weight we carry
is love

(Song, Allen Ginsberg, 1954)

Copertina del concept album Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band, ottavo album della discografia ufficiale dei Beatles, 1967

Copertina del concept album Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, ottavo album della discografia ufficiale dei Beatles, 1967

Gli anni ’60 e ’70 del Novecento hanno portato grandi cambiamenti: dalla rivoluzione sessuale della pillola anticoncezionale alla moda della minigonna; è il decennio dei Beatles e della Pop Art di Andy Warhol, delle lotte politiche e del movimento pacifista, degli hippies, del Flower power, del rock psichedelico, del festival di Woodstock (la cui risonanza mediatica fu enorme in tutto il mondo), della guerra in Vietnam e della legge sul divorzio in Italia: avanza a piè pari un profondo cambiamento negli usi e costumi della società occidentale e i giovani e le donne vivono in prima linea questo rinnovamento radicale, i cui influssi sono tangibili anche ai nostri giorni.

La modella Twiggy, icona pop degli anni '70

La modella Twiggy, icona pop degli anni ’70

Negli anni ’60 trionfa il culto dell’immagine fotografica e della produzione in serie diretta sempre di più ad una cultura di massa, alimentata ora più che mai dai media (televisione, riviste) ed in particolare dalla potenza evocativa della pubblicità.

Spilla floreale in celluloide, anni '60

Spilla floreale in latta smaltata, anni ’60

Andy Warhol dedica nelle sue opere molto spazio al concetto e al valore di “falso”; molti artisti, come Salvator Dalì, si cimentano nella creazione dell’arte in forma di gioiello e l’ultimo dei grandi disegnatori di bijoux americani, Kenneth Jay Lane, negli anni ’70 viene consacrato definitivamente come capostipite nella produzione seriale dei bijoux, realizzando in gioielleria il concetto dei “multipli” che la Pop Art aveva teorizzato e realizzato nelle arti visive: produzione di massa non solo come ripetizione ossessiva dello stesso soggetto ma come mezzo mediatico per far arrivare l’idea dell’artista al maggior numero di persone possibile.

Il culto dell’immagine, la spasmodica ricerca della celebrità, il consumismo indotto provocano, insieme alle tensioni sociali del momento (guerra in Vietnam, assassinio di Kennedy, situazione in Cina) una forte reazione idealista e pacifista, dando luogo al movimento degli hippies, i “figli dei fiori”. Gli hippies adottano uno stile di abbigliamento lontano dai canoni classici della moda patinata, usando la moda come simbolo di libertà e di parità dei sessi: camicie larghe e colorate, tuniche dai colori sgargianti, gonne lunghe, pantaloni a zampa e monili dal retrogusto esotico diventano parte di un ben definito gruppo culturale e sociale, che vuole prendere le distanze dalla società convenzionale.

Il poeta statunitense Allen Ginsberg

Il poeta statunitense Allen Ginsberg

Flower power è un’espressione tipica del movimento hippy, che significa letteralmente “potere dei fiori”, simbolo di una ideologia non violenta. La paternità dello slogan, risalente al 1965, è del poeta Allen Ginsberg. Il movimento nacque per opporsi attivamente alla guerra del Vietnam; alcune prese di posizione dei pacifisti militanti (come bruciare le lettere di chiamata obbligatoria alle armi) suscitarono sdegno e critiche negli ambienti conservatori e tradizionalisti ma fecero leva sulle giovani generazioni, gettando i semi di una cultura hippy che si consacrerà negli anni a seguire, estendendosi dagli Stati Uniti all’Europa. Proprio in Europa, ad Amsterdam, si trova uno dei luoghi di incontro del movimento più famosi, una vecchia chiesa trasformata in un club musicale chiamato “Paradiso”, rifugio della controcultura antimilitarista e anti interventista e luogo in cui molti dei più grandi artisti del tempo (tra cui Yoko Ono), tennero memorabili performarce e concerti.

Locandina del concerto di Woodstock, 1969

Locandina del concerto di Woodstock, 1969

Parlando di concerti e di hippies, come non citare il mitico festival di Woodstock, che nell’immaginario comune è la manifestazione più celebre del movimento Flower power. Il leggendario evento, che vide tra i suoi protagonisti mostri sacri della storia della musica come Joan Baez e Bob Dylan, si svolse a Bethel, una piccola città rurale nello stato di New York, nell’estate del 1969, prendendo il nome dalla vicina città di Woodstock e accolse (inaspettatamente) più di 400.000 giovani. La grande carica simbolica lo ha consacrato come uno tra i più grandi eventi della storia del rock e del costume.

Joan Baez e Bob Dylan

Joan Baez e Bob Dylan

L’espressione Flower Power rimanda le antiche credenze secondo le quali i fiori abbiano proprietà nascoste che vanno portate alla luce; dal punto di vista sociale questo rimanda inevitabilmente alle droghe ed agli allucinoceni ma dal punto di vista della moda e del costume richiama un nuovo stile, più libero e disinibito, più infantile e colorato: a partire dalla seconda metà degli anni ’60 trionfano le stampe dalle fantasie psichedeliche e floreali e dai disegni geometrici con cerchi, linee intrecciate deformate e colore, colore, tantissimo colore, accostato con nuova e disinibita libertà.

Moda floreale anni '70

Moda floreale anni ’70

Nel corso degli anni ’70 ai temi floreali si accostano i simboli della pace e di gusto orientale, in linea con la corrente di pensiero degli hippies. I nuovi simboli entrano in uso sia negli abiti che negli accessori. In questo periodo l’industria del gioiello vede un calo di produzione: come nel periodo della crisi economica degli anni ’40, in un momento sociale che richiama ad uno stile di vita più sobrio e minimale, i bijoux che esaltano uno stile glamour e di sfavillante eleganza non sono visti di buon occhio; fanno tuttavia eccezione gli orecchini molto grandi e i pendenti con simboli naturali e orientaleggianti.

collana in materiale plastico, metallo e perline, anni '70

Collana in materiale plastico, metallo e perline, anni ’70

Le case produttrici, anche e soprattutto per avvicinarsi ai gusti ed alle tendenze del momento, scelgono materiali prevalentemente poveri (oltre che intrinsecamente anche nell’aspetto) e duttili: compaiono quindi gioielli composti da fili metallici intrecciati tra loro, stoffa, perline e piccoli ciondoli in materiali plastici.

Si può dire che la moda floreale, il gusto per i colori accostati in libertà, le forme ampie, morbide e libere di questi anni, hanno subito rimaneggiamenti, reinterpretazioni ma non sono mai scomparse, forse per l’allegria e la leggerezza che evocano, forse perché rappresentano ancora, loro malgrado, l’utopia di un mondo migliore, più attento alla natura e al rispetto tra i popoli.

Autore: Lara De Lena

photo credit: www.woodstockfilmfestival.comwww.truthseeker444.blogspot.comwww.feelnumb.comhttp://moda.pourfemme.it/www.fleurette.itwww.paoenrico.it; http://www.finisilvia.com; http://www.stilefemminile.it;

Trifari e il trionfo del bijoux

15 Mag

A partire dagli anni ’30, in seguito alla crisi economica del periodo post bellico, i gioiellieri, che subiscono un forte abbassamento di clientela, per sopravvivere iniziano a produrre, accanto alle tradizionali linee di gioielli veri, nuove serie di bijoux, falsi ma eccellenti per stile e fattura. Questo fenomeno fa si che negli Stati Uniti si raccolgano i più grandi disegnatori emigrati sin dal secolo precedente, quali Alphred Philippe e Gene Verri tra gli altri, e si inizi a produrre in larga scala. In breve, la mania del bijoux conquista le donne di ogni classe sociale, aumentano le industrie del settore ed emergono le più importanti case di bigiotteria firmata, al grido

Un diamante è per sempre, uno strass è per tutte!

La moda femminile negli anni '30

La moda femminile negli anni ’30

L’uso del bijou diventa il segno di una progressiva democratizzazione della società e del riscatto del ruolo della donna nella società contemporanea, il cui valore non è più dettato dalla famiglia a cui appartiene (e di cui eredita i preziosi) bensì dalle proprie capacità e doti, anche di eleganza e fantasia.

Trifari, braccialetto Art Decò, 1920

Trifari, braccialetto Art Decò, trifanium e strass, 1920

L’idea di base è che ogni donna ha diritto di sentirsi speciale e può farlo indossando qualcosa di bello; la “bellezza” di un gioiello può non dipendere più soltanto dalla preziosità del suo materiale, conta anche l'”idea”, l’estro creativo di un designer, unito all’esperienza degli artigiani in grado di creare prodotti curati e definiti in ogni dettaglio. I materiali, anche se dai costi contenuti diventano unici e sfavillanti perché arricchiti da strass e false perle. In questo contesto di grande innovazione del costume e della società che apre la strada alla seconda metà del XX secolo, la casa di bijoux a nome Trifari è certamente una delle protagoniste più acclamate. Il marchio porta oltreoceano tutta l’arte e l’estro creativo del “made in Italy”, tramandato dalla tradizione artigiana partenopea.

Pubblicità Trifari, in Vogue, dicembre 1944 e Harper's Bazaar, gennaio 1945

Pubblicità Trifari, in Vogue, 1944 e Harper’s Bazaar, 1945

Nata in America nel 1918 dall’orefice napoletano Gustavo Trifari e dal suo socio Leo F. Krussman (il primo dotato di esperienza artigiana ed estro creativo, il secondo di capacità imprenditoriale), il marchio si arricchisce nel 1925 di un terzo socio, Carl Fischer, e raggiunge il successo negli anni ’30, quando le riviste teatrali di Broodway usano per il loro palcoscenico solo ed esclusivamente gioielli Trifari per spettacoli di larga fama quali La grande guerra e Roberta.

Pubblicità Trifari della collezione Sahara, in Harper's Bazaar, 1963

Pubblicità Trifari della collezione Sahara, in Harper’s Bazaar, 1963

Il successo da quel momento è in continua ascesa: il marchio Trifari continua a produrre anche durante la Seconda Guerra Mondiale, resistendo alle restrizioni sulle importazioni dei metalli imposte dal governo americano. Durante la guerra i bijoux vengono prodotti utilizzando una lega in argento, con la quale i geniali designer realizzeranno degli affascinanti melanges di colori e materiali. Sempre negli anni del conflitto, la casa non solo continuerà a produrre a largo consumo ma addirittura si inventerà gioielli patriottici, spille e ferma pellicce a forma di aquila, bandiera e emblemi di intenti celebrativi, con i quali si aggiudicherà un contratto in esclusiva per progettare e realizzare il logo dell’England Royar Air Force.

Spilla Trifari Crows, 1950

Spilla Trifari, trifanium color oro e perline, 1950

Gli anni che vanno dal ’40 al ’60 sono considerati l’età d’oro della bigiotteria americana, dal 1953 al 1957 Trifari firma addirittura in esclusiva gioielli per la moglie del Presidente degli Stati Uniti Eisenhower, Ladie Mamie, che li indossa nelle cerimonie ufficiali, creando una vetrina tra le più illustri nella lunga e fortunata storia del marchio. La tradizione si è rinnovata negli anni ’90, quando tra le ammiratrici del marchio troviamo un’altra celebre first lady, Barbara Bush.

Collana Trifari in trifanium color oro giallo e perline smaltate color turchese, 1957

Collana Trifari in trifanium color oro giallo e perline smaltate color turchese, 1957

L’utilizzo di materiali poveri e di modesto prezzo per la realizzazione di tutti i gioielli, imposto dalla crisi economica conseguente la seconda guerra mondiale, diventa, grazie all’abilità della casa Trifari come di altre case produttrici di bijoux degli stessi anni (Eisenberg, Hobè, Robert, Boucher, Miriam Haskell, Coro, Weiss, Sara Coventry, Kramar, Art, Lisner, Vendome) una vera e propria tendenza, conquistando un’imponente fetta di mercato.

Spilla Trifari in trifanium color oro, 1960

Spilla Trifari in trifanium color oro, 1960

Ma quali sono le ragioni di un successo così grande? intanto per Trifari hanno lavorato tra i maggiori designer di gioielli, da Alfred Philippe, che all’inizio della sua collaborazione con la casa nel 1930 vantava già un curriculum d’eccezione (Cartier e Vaan Cleef & Arpels) fino all’artista, fotografa e designer Diane Love, che negli anni ’70 realizzò per Trifari splendidi esemplari.

moda anni 60

La moda femminile negli anni ’60

Inoltre, i bijoux di Trifari sono realizzati con una lega metallica, il trifanium, del tutto simile all’oro bianco e giallo per colore e lucentezza, che ha il pregio di mantenerli inalterati col passare degli anni.

A questo si aggiunge la cura nei minimi particolari che li rende affascinanti e preziosi esattamente come i “veri” gioielli e la capacità dei suoi designer di cavalcare ed anticipare le tendenze della moda femminile in tutti i suoi cambiamenti ed evoluzioni.

La designer Diane Love con una collana Trifari disegnata da lei, 1970

La designer Diane Love con una collana Trifari della collezione Ming, in Harper’s Bazaar, 1972

Come si fa a riconoscere un bijoux Trifari? Semplice, basta guardare il marchio stampato sul retro. Il primo marchio Trifari è ‘KTF’ ovvero le iniziali di Krussmann Trifari e Fishel senza corona, in uso dal 1925 al 1937, in seguito il marchio viene realizzato per esteso con varie grafie e varie corone. Si può senz’altro dire, tuttavia, che un bijoux Trifari, al di là del marchio, è riconoscibile per la straordinaria qualità della lavorazione e per l’inalterabilità della luce che emana, anche dopo tanti anni, caratteristica che rende il marchio attualmente ancora tra i più richiesti nell’ambito della bigiotteria vintage.

Autore: Lara De Lena

Photo credit: http://www.caladoriente.it/;

http://www.ebay.it/; https://sararacouture.com; https://www.pinterest.com; Johanne Dubbs Ball, Costume jewelers. The golden Age of Design, Shiffer pubblishing Ltd, USA, 1990

FER DE BERLIN, czyli jak żelazo zyskało większą wartość od złota

8 Apr

Biżuteria pełni ważną – symboliczną, czy też czysto ozdobną – rolę w życiu człowieka już od epoki antyku. Mogła być wyznaniem miłości, oznaką statusu w społeczeństwie lub reprezentować władze. Jedno było pewne – im bardziej kosztowne jej wykonanie, „tym lepiej”, tym bardziej pożądana i tym więcej ludzie byli w stanie za nią oddać. Jak więc wytłumaczyć zdumiewające wydarzenie z historii pruskiej z roku 1813,  w którym to wśród kobiet i mężczyzn modny stal się slogan Złoto dałam/dałem za żelazo?  Aby zrozumieć ewenement wyrobów biżuteryjnych z żelaza, przyćmiewających sławę złota w XIX wieku, należy poznać bliżej historię pierwszych hut i odlewni żeliwa w Polsce, z których to pochodząca biżuteria żeliwna, stała się oznaką głębokiego patriotyzmu.

Property of F D Gallery

Property of F D Gallery

W latach 70. XVIII w. na terench Śląska powstały huty i odlewnie żelaza, które rozpoczęły wykorzystywanie koksu do opalania pieca hutniczego. Jednak nowością (w pierwszym pruskim zakładzie, tzn. hucie gliwickiej otworzonej ok. 1796  r. i w kolejnym, powstałym w Berlinie), która nas bardziej zainteresuje, było odkrycie nowego zastosowania żeliwa – do produkcji wyrobów dekoracyjnych. Wieść o żelaznych ozdobach rozeszła się na tyle szybko, że już około 1806 r. pojawili się pierwsi jubilerzy (Johann Conrad Geiß, a za nim Siméon Pierre Devaranne), zainteresowani wyrobem biżuterii, już nie złotej, tylko nowej, przez to modernej – żelaznej.  Była ona pierwotnie odlewana właśnie w hutach państwowych, ale z czasem, stała się tak popularna, że Geiß zdecydował się na otwarcie własnego zakładu – państwowe odlewnie przestały po prostu nadążać za jego zamówieniami. Fer de Berlin czy fonte di Berlinó – tak wlasnie opisywano nowoczesną biżuterię – zaczęły się także interesować znane osobistości, takie jak np. sławny architekt i artysta niemiecki – Karl Friedrich Schinkel. Przy pomocy konkurenta Geißa, Devaranne (a konkretnie dzięki jego kontaktom w stolicach Europy Paryżu i Londynie), o ozdobach żeliwnych usłyszano także poza granicami pruskimi (liczba przedsiębiorstw zaczęła się zwiększać z roku na rok). Dodatkowym powodem, który przyczynił się do niezwyklej popularności biżuterii żelaznej, była z pewnością rola, jaką odegrała na scenie politycznej na początku XIX wieku.

W roku 1813, podczas wojny wyzwoleńczej, która miala powstrzymać  Napoleona przed kolejnymi podbojami i doprowadzić do wyzwolenia Prusów spod władzy francuskiej – został wydany przez księżniczkę Hessen-Homburg apel z prośba o oddanie kosztownej biżuterii – w celu dofinansowania armii antyfrancuskiej. W zamian za błyszczące datki, kobiety, a później także meżczyźni, otrzymywali skromną, żelazną biżuterię. W związku ze wspomnianą kampanią powstała nawet specjalnie na tą okazję biżuteria z wygrawerowanym napisem – Gold gab ich für Eisen („Złoto dałam za żelazo”).  Ta oto, w ten sposób, zyskała walor patriotyczny oraz socjalistyczny i w paradoksalny sposób – na tego, kto nosił „żelazo” spoglądano z szacunkiem – jako na walczącego za ojczyznę, natomist tych, którzy nadal świecili się złotem i srebrem, omijano wzrokiem. Kolejnym ważnym czynnikiem, który pomogł żelazu w uzyskaniu popularności równej złotu czy też kamieniom szlachetnym, było ustanowienie przez króla Prus Fryderyka Wilhelma III odznaczenia wojskowego za ofiarność w walce wyzwoleńczej z 1813 r., którym to stał się Krzyż Żelazny odlewany właśnie w żeliwie (projektu współpracownika Geißa, już wcześniej przez nas wspomnianego, C. F. Schinkla).  Ten krzyż został później reaktywowany podczas I wojny światowej, co ukazuje jeszcze lepiej nobilitację nowego materiału, jakim było żelazo. Motyw żelaznej biżuteri otrzymywanej w zamian za złoto – jako symbol wspomagania ojczyzny – odnajdujemy także w innych dziedzinach, tj. na scenie (Emmerich Kálmán skomponował operetkę opisujacą to wydarzenie), oraz w literaturze (w 1933 r. Margarethe Pauly napisała powieść pod tytułem pt. Gold gab ich für Eisen).

Copyright © 2015 Made by Custom. All Rights Reserved

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Warto także przejrzeć się bliżej wykonaniu biżuterii żeliwnej. Wszystko rozpoczynało się przetapianiem surówki żelaza w żeliwniakach (tzn. piecach hutniczych), które znajdowały się w odlewniach. Następnie przechodzono do sztuki odlewnictwa, która polegała na zalewaniu przygotowanej już formy, poprzednio stopionym materiałem – w tym przypadku stopem żelaza z węglem – i kolejnie na kontrolowaniu krzepniecia tak, aby otrzymac wyrób o preferowanej konsystencji. Ok. roku 1830 rozpoczęto używanie formy wykonanej w drobnoziarnistym piasku odlewniczym, którą można było znaleźć tylko w odlewniach pruskich. Technika odlewania została udoskonalona także o zapobieganie rdzy, poprzez zastosowanie cieniutkiej warstwy pokostu lnianego. Kolejnym ulepszeniem było złocenie (szczególnie wewnętrznych) płaszczyzn biżuterii, po to, aby żelazo nie reagowało ze skórą. Była to „podwojna wygrana”, ponieważ pozłacane elementy idealnie komponowały się z głęboką, matową czernią żelaza i tylko nadawały mu niesamowitej wytworności i szyku. Jeśli chodzi o kanon form, w których były odlewane elementy biżuterii, to odpowiadał on ówczesnej modzie – wśród motytów można było spotkać ornamenty z epoki antyku odpowiadające modnemu wówczas neoklasycyzmowi (takie jak akanty, palmety czy tez klon okrąglolistny) czy też elementy budowlane (zaczerpnięte z szerokiej gamy gotyckich elementów architektonicznych, tzn. nawiązujace do neogetyku). Po roku 1820 repertuar powiększono o nowe elementy – pochodzące z mitologii rzymskiej nimfy, gracje i amory.  Do wyboru motywów dołączyły szybko także te zaczerpniente ze stylu Biedermeier (róże i bukiety kwiatów), czyli śmialo można powiedzieć, że w kolekcjach biżuterii żeliwnej, każdy mogł znaleźć coś dla siebie.

Rozkwit biżuterii żeliwnej przypadł na lata 1815-1840. Fer de Berlin i fonte di Berlinó – tak właśnie nazywano żelazne „błyskotki”, które z czasem można było kupić już nie tylko w Gliwicach czy Berlinie, ale także w kolejnych sklepach we Wroclawiu oraz w stolicach mody takich jak Paryż czy Londyn. Dzięki wspomaganiu produkcji przez króla pruskiego, biżuteria z żelaza odznaczała się najlepsza jakościa materiału oraz zastosowaniem filigranowych elementów ozdobnych i w ten sposób pojawiła się także na najpopularniejszych salonach. Kolejnym krokiem w historii żeliwa ozdobnego, była produkcja galenterii (tj. przedmiotów używanych na co dzień). Były to ozdoby takie jak plakietki, statuetki, medaliony, kandelabry, wizytowniki, stojaki na zegarki kieszonkowe, chrzcielnice czy tez nawet meble – wszystko to, podobnie jak biżuteria, było zgodne z panujacymi wówczas trendami.

W roku 1848, po tragedii Wiosny Ludów na ktorej ucierpały niestety także odlewnie, pracownicy zakładów hutniczych nie byli w stanie odnaleźć wiekszości utraconych modeli i dokumentów. Dodatkowo fakt, że wzrastała coraz szybciej konkurencja na rynku odlewniczym oraz została wynaleziona łatwiejsza technika – odlewania brązu – berliński zakałd chylił się ku upadkowi, co zaskutkowało ostatecznym zamknieciem odlewni w 1874 roku. Produkcja biżuterii żeliwnej, znikała powoli ze sceny, wraz jej wygasającym mottem patriotycznym. W latach 20. XX w. próbowano wznowic produkcję żeliwnych ozdób, ale jako, że zmienił się kontekst historyczny i z pewnościa także moda, fenomen z pierwszej połowy XIX w. już się nie powtórzył.

W XXI w. żeliwne ozdoby spotkamy przede wszystkim na wystawach w museum – w tym np. w Märisches Museum w Berlinie czy tez Victoria and Albert Museum w Londynie. Motywy wykorzystywane przy produkcji biżuterii żeliwnej są interpretowane do dzisiaj (przykładowo przez berlińską projektantkę biżuterii Bettinę Fehmel), ale już ubrane w inny, bardziej „na czasie” materiał – silikon. W niektórych niemieckich lub londyńskich antykwariatach jeszcze teraz można znaleźć oryginalne żeliwne kolie i bransoletki, z jedną przestrogą – należy za nie zapłacić od…..1000 do 12 000 euro. Jeśli chodzi o przedmioty codziennego użytku, to jeszcze u nie jednego niemieckiego kupca, w sklepie z antykami (np. w Monachium czy Hamburgu) stoi zakurzona statua, stoł czy krzesła wykonane z żeliwa. Trzeba się niestety liczyc z tym, że cena także w tym przypadku jest dosyć wysoka.

Symbol oddania za ojczyzne, przykład na to, ze wszystko co w modzie się sprzeda lub też najlepsza interpretacja żelaznych czasów, jaką można tylko znaleźć – sukces biżuteria żelazna zawdzięcza pewnie wszystkim tym powodom. Jedno jest pewne – niepowtarzalna precyzyjność i kunszt wykonania, zastosowanie oryginalnego, nowego materiału i matowy kolor, który z gracją „przebił” błysk szlachetnego złota – to wystarczjące powody, aby ozdoby żeliwne zyskały swój osobny, choćby krótki, rozdział w historii biżuterii.

Author: Sonia Pytkowska

Il gioiello nei ritratti fiamminghi

1 Apr
Jan e Hubert van Eyck, Polittico dell'agnello mistico (particolare), 1426 -1432, Gand

Jan e Hubert van Eyck, Polittico dell’agnello mistico (particolare), 1426 -1432, Gand

Nella storia dell’arte molte opere si presentano ai nostri occhi come una sfavillante vetrina di gemme e pietre preziose: perle, diamanti, topazi, lapislazzuli, cammei, alabastri e altre meraviglie compaiono in molte tele rivestendo spesso sottili significati simbolici. Troviamo un grande repertorio di monili nella pittura fiamminga, proveniente dalla Borgogna ducale nelle Fiandre, che alla fine del secolo XIV e nella prima metà del XV conosce la pienezza della sua vita artistica e culturale.

Nelle immagini sacre della tradizione tardogotica borgognona, la valenza è molto iconica e allegorica, il gioiello è dunque il simbolo della preziosità e rarità della fede; nelle immagini di corte, invece, si assiste a un vero e proprio ritratto di costume, attraverso l’uso degli ornamenti si può risalire al gusto, agli usi e alle trasformazioni sociali di quegli anni.

Hans Holbein il Giovane, Ritratto di Jane Seymour, 1537

Hans Holbein il Giovane, Ritratto di Jane Seymour, 1537

Nei pittori fiamminghi il quadro è uno specchio della natura in cui ogni particolare è accostato all’altro con cura e sapienza in un minuto lavoro di osservazione e fedele riproduzione; così quindi anche per i gioielli rappresentati è possibile osservare la resa pittorica fortemente realistica dell’oro e delle gemme più preziose. I personaggi dei ritratti fiamminghi si distaccano dal fondo e prendono forma e volume, ruotando verso chi guarda, come in dialogo; il gioiello risplende quindi in tutta la sua minuziosa e preziosa fattura, come se fosse li, reale, davanti ai nostri occhi, pronto per essere indossato. Una dirompente carica di sensualità ed erotismo stravolge, sconvolge e rinnova gli sfarzi della gotica pittura borgognona: i gioielli non più come simbolo della potenza divina ma come esaltazione della bellezza terrena.

Petrus Christus, Ritratto di giovane donna, 1460-1470

Petrus Christus, Ritratto di giovane donna, 1460-1470

Il rapporto fra gioiello e pittura, in quest’epoca per i fiamminghi fu molto stretto e ravvicinato: pittori e scultori erano soliti fare pratica nelle botteghe degli orafi per ricavare abilità e raffinatezza tecnica. I rapporti di interscambio erano stretti e molteplici, l’accuratezza del dettaglio nella rappresentazione del gioiello era in alcuni casi dovuta proprio alla “sapienza del mestiere”: i fratelli van Eyck, ad esempio, furono abili orafi e miniaturisti. Scopriamo quindi che il grandissimo artista Jan van Eyck (Maaseik, 1390 circa – Bruges, 1441), oltre ad essere celeberrimo per la resa analitica della realtà e per aver introdotto in Europa la tecnica della pittura a olio (che sostituì l’uso del colore a tempera), era uso anche intagliare diamanti e incastonare pietre.

Peter Paul Rubens, Ritratto di Eleonora Gonzaga all’età di tre anni (part.), 1601 ca.

Peter Paul Rubens, Ritratto di Eleonora Gonzaga all’età di tre anni (part.), 1601 ca.

Uccelli, animali esotici e mostri fantastici sono i soggetti principali delle opere di oreficeria del primo Cinquecento. La scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo, avvenuta alla fine del XV secolo, ha permesso l’arrivo in Europa di motivi decorativi fino a quel momento inesistenti, ereditati dalla cultura inca e azteca. Le novità passando per la Spagna, giungono anche in Italia (soprattutto per mezzo dei grandi mecenati), dove si fondono con la tradizione figurativa greco-romana. Oltre all’utilizzo di un’iconografia favolosa, questi gioielli sono caratterizzati da una sontuosa commistione di materiali. Ori, smalti, perle e pietre preziose si presentavano nello stesso monile.

Si riteneva che questi oggetti d’oreficeria, spesso ispirati da immagine diffuse tramite libri stampati, avessero dei poteri magici. Un esempio è il Ritratto di Eleonora Gonzaga all’età di tre anni, del pittore Peter Paul Rubens (Siegen, 1577 – Anversa, 1640), realizzato nel 1601, in cui compare un singolare gioiello, un pendente con una scimmia, che simboleggia prosperità e protezione dalle malattie, grazie ai rametti appuntiti che avevano la capacità di deviare l’influsso malefico.

Tra le diverse connotazioni simboliche della scimmia, essa può essere interpretata anche come una allegoria della pittura e della scultura: l’arte, come la scimmia, copia gli atteggiamenti degli uomini, fedelmente, divenendo specchio della realtà. La scimmietta di Eleonora Gonzaga è inoltre collegata anche alla vezzosità della damina, che amava specchiarsi. Uno specchio sembra apparire nella mano destra della scimmia per rappresentare un peccato combattuto nelle bambine e nelle donne: la vanità.

Johannes  Vermeer, Ragazza con turbante (o Ragazza con perla all'orecchio), 1665 ca.

Johannes Vermeer, Ragazza con turbante (o Ragazza con perla all’orecchio), 1665 ca.

Non è possibile, infine, non citare tra i nordici il pittore olandese Jan Vermeer (Delft, 1632 – 1675) e la sua celeberrima opera Ragazza con turbante, dipinta nel 1665 e famosa come Ragazza con l’orecchino di perla proprio in virtù della potenza scenica e sensuale del gioiello indossato.

Il pittore, a lungo sottovalutato dalla critica, deve la sua rivalutazione al critico Jean-Louis Vaudoyer, che gli dedica una serie di articoli in cui rivendica l’uso “nutriente” che fa del colore, capace di risvegliare una sorta di “appetito sensuale” perché scava nella materia più profonda, dando consistenza reale e sanguigna alle immagini rappresentate. L’opera deve invece perlopiù la sua fortuna mediatica ai due libri che ha ispirato, La ragazza col turbante della scrittrice Marta Morazzoni, edito nel 1986 e La ragazza con l’orecchino di perla del 1999 della scrittrice Tracy Chevalier. Da quest’ultimo romanzo è stato realizzato nel 2003 l’omonimo film interpretato da Scarlett Johansson, che ne ha consacrato definitivamente la fama. Si tratta di un ritratto di giovane donna in stile tronien, tipo di ritratto in costume storico/esotico di personaggi biblici, mitici o semplicemente antichi; la giovane è “dipinta alla moda turca”, per via del turbante indossato, che le regala un alone ancora più misterioso ed esotico.

L’orecchino con perla del quadro, che cattura quasi da solo la centralità della luce di cui è pervaso il dipinto, è di grandi dimensioni ed è a forma di goccia. Sebbene la ragazza che lo indossa appaia di modeste condizioni, tale monile era al tempo di Vermeer prerogativa delle dame aristocratiche dell’alta borghesia, come rappresenta lo stesso artista in un’opera appena più tarda, La padrona e la serva.

Johannes  Vermeer, La padrona e la serva, 1667 ca.

Johannes Vermeer, La padrona e la serva, 1667 ca.

Nel XVII secolo le perle, importate dall’estremo oriente, erano una preziosa rarità. Nate dal mare, prodotte dal mollusco all’interno dell’ostrica per proteggersi da piccoli elementi come granelli di sabbia, le perle sono tra i gioielli più eleganti e femminili, il cui fascino era ben noto anche agli antichi: le nobildonne romane reputavano la perla il gioiello più elegante e raffinato, e pare che la regina Cleopatra possedesse le due perle più grandi del mondo. Un’antica leggenda araba racconta che le perle sono gocce di luna cadute nel mare per adornare la bellezza femminile. Presso gli antichi greci, la perla era il gioiello di Afrodite, dunque simbolo d’amore, ed era il gioiello preferito da Polinnia, la Musa addetta agli inni, ai canti e all’eloquenza.

Inoltre, si credeva che la perla avesse poteri magici e taumaturgici, che fosse afrodisiaca, che rendesse la pelle bianca e luminosa e che avesse un effetto calmante sull’umore e lenitivo per i dolori di stomaco; per questo, in base ad un’usanza dalle origini molto antiche e mantenuta tra le classi più elevate fino al XVIII secolo, veniva bevuta disciolta nell’aceto.

La leggenda secondo cui le perle “portino lacrime” risale al Medioevo: ancora oggi, si usa “pagare” con una monetina simbolica chi ci dona le perle, che in questo modo diventano acquistate, spezzando così il maleficio.

Oggi come ieri, le perle continuano a conservare il loro fascino di “figlie del mare” e a tramandare un valore simbolico di pegno d’amore e di innata eleganza senza tempo.

Autore: Lara De Lena

photo credit: http://it.wikipedia.org/; www.italianopera.orgPierluigi De Vecchi, Elda Cerchiari, Arte nel tempo, vol 2 – Tomo 1 e 2, Milano, Bompiani, 1991; Carlo Bertelli, Antonio Briganti, Carlo Giuliani, Storia dell’arte italiana, vol 3, Milano, Electa/Mondadori, 1990

Aemilia Ars (RU)

19 Mar

В 500-600 годах,Болонья была оживленным центром вышивки, о чем  свидетельствует опубликованный альбом рисунков кружева Angelo Passarotti (1591) и Bartolomeo Danieli (1639). В 1898 году по проекту Alfonso Rubbiani, carlton4возникла компания Aemilia Ars,задачей которой было создание тесного сотрудничества между художниками, ремесленниками и клиентами. Вдохновленная натуралистическими мотивами средневекового искусства, эта компания получила почетный диплом на Международной выставке в Турине в 1902 году.С успехом пришла надежда на возрождение ремесел в Болонье, но к сожалению, из-за экономических трудностей, компания распалась в 1903.С этого момента было решено развивать только более выгодную  индустрию кружева и вышивки. Деятельность болонезких вышивальщиц приняла форму женского кооператива под патронатом графини Lina Bianconcini Cavazza, достигнув интернационального успеха и признания. Рисунки  и ткани, хранятся в музее тканей и гобеленов Villa Spada, на via di Casaglia n.3 в Болонье.

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Look Cleopatra

26 Mar

Look Cleopatra

L’aspide ha sempre avuto un grande fascino ed è un tema ricorrente nella storia del gioiello a partire dalle più antiche civiltà. Se poi a proporlo è uno dei più grandi designer americani come Kenneth Jay Lane…il successo è assicurato. 😉